N. 212
SENTENZA 19 GIUGNO-3 LUGLIO 1997
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Guido NEPPI MODONA, prof.
Piero Alberto CAPOTOSTI;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 18, legge 26
luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
promosso con ordinanza emessa il 23 marzo 1996 dal Magistrato di
sorveglianza di Brescia sul ricorso proposto da Beltrami Gianluigi,
iscritta al n. 527 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale,
dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 9 aprile 1997 il giudice
relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto
1. - Chiamato a provvedere sul reclamo avanzato, ai sensi dell'art.
35 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento
penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative
della libertà), da un detenuto ristretto in carcere in forza
dell'ordine di esecuzione di una condanna definitiva, a cui non era
stato consentito dall'amministrazione carceraria un colloquio con il
difensore, il magistrato di sorveglianza di Brescia, con ordinanza
del 23 marzo 1996, pervenuta a questa Corte il 13 maggio 1996, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento
all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dell'art. 18 della
legge citata - che disciplina "colloqui, corrispondenza e
informazione" dei detenuti - "nella parte in cui non prevede il
diritto del difensore del condannato definitivo detenuto,
regolarmente nominato, a fruire di colloqui con le stesse modalità e
nella stessa misura prevista, per gli imputati detenuti, dagli artt.
96 e seguenti cod. proc. pen. (ed in particolare dall'art. 104 dello
stesso codice)", nonché "nella parte in cui il difensore viene
considerato come terzo abilitato al colloquio, su discrezionale
decisione del direttore dell'istituto, esclusivamente nel caso di
pendenza di 'procedimenti giurisdizionali' in relazione ai quali sia
stato regolarmente nominato".
Il remittente premette che il reclamo è ammissibile, trattandosi
dell'unico rimedio che l'ordinamento concede al condannato in tema di
colloqui, e ancorché nessuna norma del vigente ordinamento
penitenziario preveda speciali regole per i colloqui fra il
condannato definitivo ed il suo difensore; e che egualmente è
ammissibile in sede di reclamo la proposizione di incidente di
costituzionalità, trattandosi pur sempre di un procedimento che ha
luogo davanti al magistrato di sorveglianza, che è da considerare
autorità giurisdizionale.
Nel merito, il giudice a quo osserva preliminarmente che la legge
delega per il nuovo codice di procedura penale ha voluto che il
codice offrisse garanzie di giurisdizionalità nella fase della
esecuzione, con riferimento ai procedimenti concernenti le pene e le
misure di sicurezza, e sancisse l'obbligo di notificare o comunicare
al difensore, a pena di nullità, i provvedimenti relativi (art. 2,
n. 96, della legge 16 febbraio 1987, n. 81); e che ormai la fase
dell'esecuzione, che inizia con l'emissione dell'ordine di esecuzione
da parte del pubblico ministero, notificato al difensore del
condannato (art. 656, comma 4, cod. proc. pen.), costituisce
autonoma fase giurisdizionale, come conferma l'art. 655, comma 5,
cod. proc. pen., che impone, a pena di nullità, la notifica al
difensore all'uopo nominato (e non al difensore della fase
precedente, prorogato), entro trenta giorni dalla loro emissione, dei
provvedimenti del pubblico ministero (attinenti all'esecuzione dei
provvedimenti giurisdizionali) dei quali è prescritta la
notificazione al difensore: onde si aprirebbe un procedimento
giurisdizionale, indipendentemente dal fatto che sia instaurato uno
specifico procedimento di esecuzione davanti al giudice
dell'esecuzione medesima, a norma dell'art. 666 cod. proc. pen.
Con queste premesse contrasta, ad avviso del remittente, la tesi
dell'amministrazione penitenziaria, avallata anche da pareri resi
dall'ufficio legislativo del Ministero di grazia e giustizia, secondo
cui i colloqui col difensore possono bensì essere autorizzati dal
direttore dell'istituto, ai sensi dell'art. 18 dell'ordinamento
penitenziario e dell'art. 35 del regolamento di esecuzione, per
ragioni di giustizia, ma a condizione che penda un procedimento
davanti al giudice dell'esecuzione o alla magistratura di
sorveglianza, non trovando applicazione, nei confronti del condannato
in via definitiva, l'art. 104 del codice di procedura penale, che
sancisce il diritto dell'imputato in stato di custodia cautelare di
conferire con il difensore fin dall'inizio dell'esecuzione della
misura.
Secondo il giudice a quo invece, pur mancando una norma ad hoc che
legittimi pienamente la posizione del difensore nella fase esecutiva,
tale fase nella sua interezza deve essere assistita dalla garanzia di
difesa; e del resto il diritto costituzionale alla difesa si collega
ai diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della
Costituzione, e si applica, come ha affermato questa Corte nelle
sentenze n. 53 del 1968 e n. 76 del 1970, a qualunque procedimento
che, indipendentemente dalla sua qualificazione giurisdizionale,
possa sfociare un una misura limitativa della libertà personale.
Richiamata ulteriore giurisprudenza di questa Corte in tema di
diritto di difesa, il remittente sottolinea che, sebbene non vi siano
termini di decadenza perché il condannato in via definitiva possa
adire la magistratura, anche ad esso, come all'imputato destinatario
del decreto di citazione a giudizio, deve essere assicurata la
possibilità di conoscere i suoi diritti e di operare al più presto
e in modo adeguatamente assistito le proprie scelte difensive, basate
sulla conoscenza di tutte le soluzioni che l'ordinamento gli offre: e
da questo punto di vista la notifica dell'ordine di esecuzione ha la
stessa funzione della notifica del decreto di citazione a giudizio.
2. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, e
in subordine infondata.
L'inammissibilità deriverebbe, secondo l'Avvocatura erariale,
dalla mancanza, nella specie, di un "giudizio", in quanto il reclamo
al magistrato di sorveglianza in materia di colloqui dà luogo ad un
contenzioso di carattere amministrativo.
Nel merito, la difesa del Presidente del Consiglio sostiene che la
questione è infondata, anzitutto, perché, mirando a parificare, in
ordine al diritto al colloquio con il difensore, la posizione del
condannato definitivo a quella dell'imputato, indicata come tertium
comparationis prospetta in realtà una violazione del principio di
eguaglianza, e non solo del diritto di difesa: ma la differenziazione
fra le due discipline sarebbe pienamente ragionevole, data la
diversità delle situazioni messe a confronto.
Per quanto attiene al diritto di difesa, esso sarebbe vulnerato
solo se venisse sacrificato o reso estremamente difficoltoso nel suo
esercizio, ed inoltre dovrebbe essere contemperato con altri valori
costituzionali. Ora, secondo l'Avvocatura erariale, la necessità
dell'autorizzazione del direttore per il colloquio, autorizzazione
che secondo la prassi deve essere concessa, salvo che non sussistano
specifici motivi che lo sconsigliano, nella misura necessaria a
soddisfare le esigenze di giustizia, non è tale da rendere
estremamente difficoltoso l'esercizio del diritto di difesa del
condannato; ed è destinata a contemperare l'interesse del condannato
con quello, anch'esso costituzionalmente protetto, quanto meno sotto
il profilo dell'art. 97, primo comma, della Costituzione, dell'ordine
e della sicurezza degli istituti di pena.
Considerato in diritto
1. - La questione sollevata investe il mancato riconoscimento del
diritto del detenuto condannato in via definitiva di conferire - alla
stessa stregua di quanto è previsto dall'art. 104 cod. proc. pen.
per l'imputato in stato di custodia cautelare - con il proprio
difensore, nominato ai sensi dell'art. 655, comma 5, a cui viene
notificato l'ordine di esecuzione della condanna a pena detentiva,
come previsto dall'art. 656, comma 4, indipendentemente dalla
pendenza di uno specifico procedimento giurisdizionale davanti al
giudice dell'esecuzione o alla magistratura di sorveglianza: mancato
riconoscimento che si assume essere in contrasto con l'art. 24,
secondo comma, della Costituzione.
2. - L'eccezione, sollevata dall'Avvocatura erariale, di
inammissibilità della questione per carenza di legittimazione del
giudice a quo non può essere accolta.
Già in altra non recente occasione questa Corte, chiamata a
pronunciarsi su una questione sollevata dal giudice di sorveglianza
(previsto dall'ordinamento allora in vigore) in tema di diritto alla
difesa nel procedimento di applicazione di una misura di sicurezza
detentiva, ebbe a superare i dubbi sulla ammissibilità della
questione, in rapporto all'alternativa tra carattere amministrativo e
carattere giurisdizionale del procedimento, osservando che "il
termine 'giudizio' è da interpretare nel senso più lato di ogni
procedimento davanti a un giudice", e affermando, nel merito, che la
questione relativa al diritto di difesa poteva e doveva "essere
impostata su un piano diverso e più alto, che non è quello formale
dell'appartenenza del procedimento all'una o all'altra categoria (dei
procedimenti amministrativi o giurisdizionali), bensì quello
dell'interesse umano oggetto del procedimento, vale a dire quello
supremo della libertà personale"; ritenendo dunque che,
"amministrativo o giurisdizionale che sia il procedimento nel quale
un tale interesse viene in questione davanti a un giudice, spetti
sempre al soggetto il diritto ad una integrale difesa: e ciò in
riguardo a tutte le misure che incidano sulla libertà personale"
(sentenza n. 53 del 1968).
È ben vero che, in quell'occasione, ciò di cui si discuteva era
proprio il diritto di difesa nello stesso procedimento, nel cui
ambito la questione era stata sollevata; mentre nel caso presente si
discute della ammissibilità di una questione sollevata nell'ambito
di un procedimento di reclamo, volto a far valere il diritto di
difesa che si assume violato nella fase di esecuzione, genericamente
intesa, della condanna a pena detentiva. Tuttavia è indubitabile,
come sottolinea il remittente, che il reclamo al magistrato di
sorveglianza, a norma dell'art. 35 dell'ordinamento penitenziario,
costituisce l'unico rimedio apprestato dall'ordinamento in vigore al
condannato detenuto, che intenda far valere una violazione del
proprio diritto di difesa, sotto specie del diritto ad avere colloqui
con il proprio difensore, diritto che si assume illegittimamente
negato dall'autorità amministrativa penitenziaria.
Ora, poiché nell'ordinamento, secondo il principio di assolutezza,
inviolabilità e universalità del diritto alla tutela
giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.), non v'è posizione giuridica
tutelata di diritto sostanziale, senza che vi sia un giudice davanti
al quale essa possa essere fatta valere, è inevitabile riconoscere
carattere giurisdizionale al reclamo al magistrato di sorveglianza,
che l'ordinamento appresta a tale scopo.
L'unica alternativa sarebbe, in astratto, quella di ritenere la
materia rimessa al giudice amministrativo in sede di giurisdizione
generale di legittimità. Ma, nella specie, ciò che il reclamante
lamenta non è il cattivo esercizio di un potere discrezionale
dell'amministrazione penitenziaria, bensì il mancato riconoscimento
- in forza della lacuna normativa denunciata - di un diritto
fondamentale, com'è il diritto inviolabile alla difesa, sub specie
di diritto al colloquio con il proprio difensore.
Il detenuto, infatti, pur trovandosi in situazione di privazione
della libertà personale in forza della sentenza di condanna, è pur
sempre titolare di diritti incomprimibili, il cui esercizio non è
rimesso alla semplice discrezionalità dell'autorità amministrativa
preposta all'esecuzione della pena detentiva, e la cui tutela
pertanto non sfugge al giudice dei diritti (cfr. sentenza n. 410 del
1993).
D'altra parte, sebbene l'ordinamento penitenziario non abbia
esplicitamente e compiutamente risolto il problema dei rimedi
giurisdizionali idonei ad assicurare la tutela di tali diritti (tanto
che questa Corte ha dovuto talora intervenire in materia affermando
in via interpretativa l'estensione di rimedi esplicitamente previsti:
sentenza n. 410 del 1993), sta di fatto che, nel configurare (nei
capi II e II-bis del titolo secondo) l'organizzazione dei "giudici di
sorveglianza" (magistrati e tribunale di sorveglianza), esso ha dato
vita ad un assetto chiaramente ispirato al criterio per cui la
funzione di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti è posta
in capo a tali uffici della magistratura ordinaria. Alla luce di tale
criterio assume rilievo anche la generale competenza attribuita al
magistrato di sorveglianza per la verifica di eventuali elementi,
contenuti nel programma di trattamento, "che costituiscono violazione
dei diritti del condannato o dell'internato", e per l'adozione delle
disposizioni "dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti
dei condannati e degli internati" (art. 69, comma 5, ordinamento
penitenziario).
Sicché si può concludere che il procedimento instaurato
attraverso l'esercizio del generico "diritto di reclamo" del
detenuto, che può rivolgersi sia ad autorità amministrative o ad
autorità politiche o comunque estranee all'organizzazione
penitenziaria (assumendo volta a volta carattere di reclamo
amministrativo o di semplice istanza o esposto o petizione), sia
all'organo giudiziario specificamente preposto al sistema
penitenziario, vale a dire al magistrato di sorveglianza, può
assumere, anche in quest'ultimo caso, veste e carattere diversi a
seconda dell'oggetto del reclamo e del contenuto della domanda.
Mentre in alcune ipotesi le determinazioni che il magistrato di
sorveglianza è chiamato ad adottare non fuoriescono verosimilmente
dall'ambito amministrativo, altre volte, come nella specie, quando è
posta in discussione la concreta tutela di un diritto del detenuto,
che solo in quella sede possa essere fatto valere, potrà e dovrà
riconoscersi al relativo procedimento natura di "giudizio", nel corso
del quale può essere sollevata una questione di costituzionalità.
Per le stesse ragioni, non vi è contraddizione fra il
riconoscimento, in queste ipotesi, della legittimazione del
magistrato di sorveglianza, e la sua negazione in casi, come quelli
talvolta esaminati da questa Corte, in cui lo stesso magistrato di
sorveglianza esplica una funzione meramente consultiva e non
decisoria (cfr. sentenza n. 8 del 1979, ordinanza n. 382 del 1991),
ovvero comunque è sprovvisto di potere decisorio in ordine alla
applicazione della norma, della cui costituzionalità egli dubiti
(cfr. sentenza n. 109 del 1983), o interviene in funzione solo
istruttoria o servente rispetto ad un giudizio attribuito ad altro
giudice (ordinanze n. 207 e n. 290 del 1990).
3. - Nel merito, la questione è fondata.
Il diritto di difesa è diritto inviolabile, che si esercita
nell'ambito di qualsiasi procedimento giurisdizionale ove sia in
questione una posizione giuridica sostanziale tutelata
dall'ordinamento (cfr. sentenze n. 18, del 1982, n. 53, del 1968), e
che deve essere garantito nella sua effettività (cfr. sentenze n.
220, del 1994, n. 144, del 1992). Esso comprende il diritto alla
difesa tecnica (cfr. sentenze n. 125, del 1979, n. 80, del 1984), e
dunque anche il diritto - ad esso strumentale - di poter conferire
con il difensore (cfr. sentenza n. 216, del 1996), allo scopo di
predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor
prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le
possibilità offerte dall'ordinamento per tutelarli e per evitare o
attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti. Deve
quindi potersi esplicare non solo in relazione ad un procedimento
già instaurato, ma altresì in relazione a qualsiasi possibile
procedimento contenzioso suscettibile di essere instaurato per la
tutela delle posizioni garantite, e dunque anche in relazione alla
necessità di preventiva conoscenza e valutazione - tecnicamente
assistita - degli istituti e rimedi apprestati allo scopo
dall'ordinamento.
Il diritto di conferire con il proprio difensore non può essere
compresso o condizionato dallo stato di detenzione, se non nei limiti
eventualmente disposti dalla legge a tutela di altri interessi
costituzionalmente garantiti (ad esempio attraverso temporanee,
limitate sospensioni dell'esercizio del diritto, come quella prevista
dall'art. 104, comma 3, cod. proc. pen.: cfr. sentenza n. 216, del
1996), e salva evidentemente la disciplina delle modalità di
esercizio del diritto, disposte in funzione delle altre esigenze
connesse allo stato di detenzione medesimo: modalità che, peraltro,
non possono in alcun caso trasformare il diritto in una situazione
rimessa all'apprezzamento dell'autorità amministrativa, e quindi
soggetta ad una vera e propria autorizzazione discrezionale.
4. - Non è necessario, ai fini del giudizio che deve rendere
questa Corte, dirimere gli interrogativi circa la configurabilità o
meno, secondo l'impostazione data al problema dal giudice a quo di un
procedimento giurisdizionale comprendente tutta la fase esecutiva, a
prescindere dalla instaurazione di taluno degli specifici
procedimenti che la legge prevede possano essere avviati davanti al
giudice dell'esecuzione o davanti alla magistratura di sorveglianza.
È sufficiente infatti osservare che, come si è detto, il diritto a
conferire col difensore deve essere comunque garantito in quanto
strumentale rispetto all'esercizio del diritto di difesa, anche in
vista di procedimenti instaurandi anziché di procedimenti già
instaurati.
Di questa esigenza si è dimostrato consapevole il legislatore
allorquando ha imposto di notificare entro un termine perentorio, a
pena di nullità, l'ordine di esecuzione, emesso dal pubblico
ministero, al difensore, all'uopo nominato, del condannato (artt.
655, comma 5, e 656, comma 4, ultimo periodo, cod. proc. pen.).
Tuttavia non ha tratto le necessarie conseguenze per quanto attiene
al diritto del condannato detenuto di conferire col difensore: così
che la materia dei colloqui è rimasta affidata alla disciplina
dell'art. 18 dell'ordinamento penitenziario, e dell'art. 35 del
relativo regolamento, in termini inidonei e insufficienti a garantire
il vero e proprio diritto al colloquio col difensore di cui il
detenuto deve essere riconosciuto titolare, come l'imputato in stato
di custodia cautelare, nei cui riguardi viceversa il codice ha
espressamente sancito il diritto medesimo.
5. - L'art. 18 dell'ordinamento penitenziario contempla i colloqui,
anche con persone diverse dai congiunti, nell'ambito delle "modalità
di trattamento" del detenuto di cui si occupa il capo III del titolo
I della legge, in una prospettiva informata all'esigenza di
assicurare al detenuto, in una certa misura, il mantenimento di
relazioni familiari e sociali, e anche di consentirgli il compimento
di "atti giuridici" (art. 18, primo comma, ordinamento
penitenziario), ma sempre astraendo dallo specifico interesse
protetto al colloquio col difensore (nominato solo dall'art. 35,
sesto comma, del regolamento, per prevedere appositi locali destinati
ai colloqui dei detenuti con i loro difensori), come strumento di
esercizio del diritto di difesa. E infatti la disciplina dei colloqui
è ispirata al criterio di affidare all'autorità carceraria - dopo
la pronuncia della sentenza di primo grado, e dunque in ogni caso per
il condannato "definitivo" - il compito di ammettere
discrezionalmente i detenuti ai colloqui con persone diverse dai
congiunti e dai conviventi, in base all'apprezzamento di "ragionevoli
motivi" (art. 35, primo comma, regolamento penitenziario).
Ma l'esercizio del diritto di conferire col difensore, in quanto
strumentale al diritto di difesa, non può, per ciò che si è detto,
essere rimesso a valutazioni discrezionali dell'amministrazione. In
assenza di ogni altra norma che riconosca tale diritto - posto che la
previsione dell'art. 104 del codice di procedura penale è
univocamente limitata all'imputato in stato di custodia cautelare -,
l'art. 18 dell'ordinamento penitenziario, unica disposizione
legislativa vigente in tema di colloqui del condannato "definitivo",
deve essere dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo nella
parte in cui non prevede che il condannato in via definitiva ha
diritto di conferire con il difensore fin dall'inizio dell'esecuzione
della condanna. Resta ferma ovviamente - come del resto nei
confronti degli imputati in stato di custodia cautelare - la
competenza dell'autorità carceraria a disporre le modalità pratiche
di svolgimento dei colloqui col difensore, senza peraltro che possa
essere esercitato alcun potere di apprezzamento discrezionale sulla
necessità e sui motivi dei colloqui medesimi.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 18 della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
come sostituito dall'art. 2 della legge 12 gennaio 1977, n. 1
(Modificazioni alla legge 26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento
penitenziario, e all'art. 385 del codice penale), e modificato
dall'art. 4 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge
sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della libertà personale), nella parte in cui
non prevede che il detenuto condannato in via definitiva ha diritto
di conferire con il difensore fin dall'inizio dell'esecuzione della
pena.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 giugno 1997.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Onida
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 3 luglio 1997.
Il cancelliere: Fruscella
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