N. 26
SENTENZA 8-11 FEBBRAIO 1999
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: prof. Giuliano VASSALLI;
Giudici: prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI
MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 6,
della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della libertà), come sostituito dall'art. 21 della legge 10 ottobre
1986, n. 663, promosso con ordinanza emessa il 2 gennaio 1998 dal
Magistrato di sorveglianza di Padova sui reclami riuniti proposti da
Moschini Marco ed altro, iscritta al n. 95 del registro ordinanze
1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9,
prima serie speciale, dell'anno 1998.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 17 giugno 1998 il giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky.
Ritenuto in fatto
1. - Chiamato a decidere sui reclami proposti da due detenuti, a
norma dell'art. 35 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della libertà), in relazione a una
determinazione della direzione dell'istituto penitenziario che non
consentiva loro di ricevere, in istituto, riviste spedite in
abbonamento ovvero da parte di familiari, in ragione del loro
contenuto asseritamente osceno, e raccolta la documentazione
pertinente al caso, il magistrato di sorveglianza di Padova ha
sollevato, con ordinanza del 2 gennaio 1998, questione di
legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 6, della legge n. 354
del 1975, nel testo sostituito dall'art. 21 della legge 10 ottobre
1986, n. 663, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
2. - Il rimettente riferisce che la determinazione della direzione
del carcere di "trattenere" le pubblicazioni si basa sull'assunto che
le medesime, per il loro contenuto, non possono considerarsi come
periodici in libera vendita perché a) sono vietate ai minori, b) la
loro esposizione è vietata dalla legge e c) la legge esonera da
responsabilità per la loro divulgazione solo edicolanti e librai.
Su tali ragioni della misura è altresì concorde l'amministrazione
penitenziaria centrale.
3. - Il magistrato di sorveglianza osserva che egli deve provvedere
sui reclami dei detenuti, facendo applicazione dell'art. 18, sesto
comma, della legge n. 354 del 1975, che stabilisce che "i detenuti
... sono autorizzati a tenere presso di sé i quotidiani, i
periodici e i libri in libera vendita all'esterno e ad avvalersi di
altri mezzi di informazione".
Si tratta quindi di decidere in una fattispecie nella quale vengono
in rilievo diritti che formano oggetto di protezione costituzionale
in via immediata, come il diritto all'informazione garantito
dall'art. 21 della Costituzione, in rapporto alla tematica dei
limiti del "buon costume".
Ciò posto, il magistrato di sorveglianza solleva la questione di
costituzionalità, sulla premessa che le decisioni che egli è
chiamato a prendere a seguito di reclamo sono "giurisdizionalizzate"
solo in determinate e limitate ipotesi, vale a dire in quelle nelle
quali il reclamo attiene alla materia lavorativa o alla materia
disciplinare. Negli anzidetti casi, è prevista un'apposita udienza
di trattazione, con la presenza del pubblico ministero e del
difensore dell'interessato, e con la possibilità, per quest'ultimo e
per l'amministrazione penitenziaria, di presentare memorie, secondo
il modulo procedimentale contenuto nell'art. 14-ter della legge n.
354 del 1975, cui l'art. 69 della stessa legge fa rinvio; inoltre, al
termine di tale iter che delinea un vero e proprio "giudizio", è
espressamente prevista l'impugnabilità della decisione presa dal
magistrato di sorveglianza, con ricorso per cassazione.
Il rimettente lamenta che analogo procedimento non sia prescritto,
in generale, in ogni ipotesi in cui il reclamo del detenuto abbia a
oggetto la lesione di un diritto costituzionalmente garantito, come
avviene appunto nella specie. In siffatte ipotesi il magistrato si
trova a dover valutare e decidere sull'operato dell'amministrazione,
che si assume incidente immediatamente su un diritto
costituzionalmente protetto, secondo un procedimento de plano privo
di garanzie, senza l'intervento della parte pubblica e che si
conclude, anche secondo la giurisprudenza, con un provvedimento non
impugnabile in alcuna sede e altresì privo della cogenza propria
delle decisioni giurisdizionali, non essendo neppure necessaria la
forma dell'ordinanza ma reputandosi generalmente sufficiente un atto
di carattere semplicemente sollecitatorio e di segnalazione alle
autorità amministrative.
Ad avviso del magistrato rimettente, la mancata previsione di un
modulo giurisdizionale effettivo nelle ipotesi anzidette risulta
irragionevole e discriminatoria, ove si consideri che il modulo del
processo è invece previsto in relazione a materie che assumono
minore rilievo sul piano delle libertà costituzionalmente garantite,
come ad esempio nel settore disciplinare.
D'altra parte, la figura del magistrato di sorveglianza è stata
istituita e regolata proprio in vista della tutela dei diritti del
detenuto, come la stessa Corte costituzionale ha più volte
affermato.
Non si tratterebbe - aggiunge - di ridisegnare strumenti di tutela
invadendo scelte proprie del legislatore, ma solo di ricondurre a
razionalità un sistema che garantisce in modo più forte interessi
più deboli e che viceversa esclude dalla tutela sul piano
processuale interessi e beni di diretto rilievo costituzionale.
Il rimettente si sofferma altresì sul possibile rilievo del
difetto delle caratteristiche del "giudizio" nel procedimento nel cui
ambito egli ha sollevato la questione: ma da un lato la censura che
egli propone è proprio quella della inadeguata connotazione
giurisdizionale della procedura di cui è investito, e pertanto la
questione medesima è rilevante perché in caso di accoglimento le
cadenze procedimentali da mettere in opera sarebbero quelle delineate
nell'art. 14-ter già citato; dall'altro, la Corte costituzionale ha
frequentemente dato ingresso a questioni di costituzionalità
sollevate da magistrati di sorveglianza in procedimenti che, non
"giurisdizionalizzati" appieno - al pari di quello in discorso -,
sono stati tuttavia ritenuti idonei a essere configurati come
"giudizio" ai fini che si discutono (ad esempio, nelle questioni
sollevate da magistrati di sorveglianza in tema di concessione di
permessi-premio), in armonia con la tendenza crescente della
giurisprudenza, costituzionale e ordinaria, a qualificare l'attività
del magistrato di sorveglianza come funzione di garanzia dei diritti
del detenuto, e dunque come giurisdizione in senso pieno.
Se, in definitiva, il giudice naturale di tutti i diritti del
detenuto coinvolti nel corso e a causa o in occasione del trattamento
penitenziario è il magistrato di sorveglianza, e non altra istanza
giurisdizionale, ordinaria o amministrativa, cui pure in astratto il
detenuto potrebbe rivolgersi, la questione prospettata, benché
incentrata su un profilo procedurale, assume una valenza di
particolare rilievo, finendo essa per qualificare il significato
stesso della funzione della magistratura di sorveglianza.
In caso di accoglimento, infatti, le decisioni da prendere su
reclamo ex art. 35 della legge n. 354 del 1975 sarebbero sempre e
comunque precedute da un vero e proprio "giudizio", conformato
secondo gli schemi del contraddittorio e delle garanzie difensive, e
sarebbero assunte in forma di ordinanza; da ciò - sottolinea il
rimettente - l'ulteriore e rilevante conseguenza della generalizzata
impugnabilità di dette decisioni con ricorso per cassazione.
Quest'ultima notazione è particolarmente sottolineata dal giudice a
quo nel senso che attraverso l'accoglimento della questione il
giudice della nomofilachia diverrebbe a sua volta garante di una
uniforme applicazione del diritto e della formazione di orientamenti
giurisprudenziali stabili e di spessore nella materia, ciò che oggi
è precluso da una ingiustificata "privazione" del modello
processuale.
4. - Il rimettente solleva dunque questione di costituzionalità,
in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, "dell'art. 69,
comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (c.d. ordinamento
penitenziario) nella parte in cui non prevede che la procedura di cui
all'art. 14-ter stessa legge si applichi (oltreché nelle ipotesi di
cui alle lettere a) e b) dello stesso comma) anche nel caso di
reclamo del detenuto avente ad oggetto la lesione immediata e diretta
di diritti costituzionalmente garantiti".
5. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, che ha concluso nel senso dell'infondatezza della questione.
Le ipotesi di "giurisdizionalizzazione" della procedura di reclamo,
contenute nell'art. 69, comma 6, della legge n. 354 del 1975,
attengono al lavoro e alla materia disciplinare, cioè a profili
strettamente legati al trattamento carcerario, e sono il portato di
una scelta effettuata dal legislatore in un ambito tipicamente
discrezionale, come tale sottratto al controllo di costituzionalità,
con il solo limite della manifesta irragionevolezza. Un limite,
aggiunge l'Avvocatura, certamente non travalicato, sia per
l'eterogeneità dell'ipotesi dell'atto dell'amministrazione avente
immediata incidenza su diritti costituzionalmente garantiti rispetto
ai casi posti a termine di raffronto, sia perché si tratta di
ipotesi generica e scollegata dai profili del vero e proprio
trattamento carcerario, suscettibile di trovare comunque la propria
tutela nei comuni mezzi e secondo le ordinarie regole di competenza
previsti dall'ordinamento.
Considerato in diritto
1.1. - Il magistrato di sorveglianza di Padova solleva questione di
legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 6, della legge 26
luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come
sostituito dall'art. 21 della legge 10 ottobre 1986, n. 663. Tale
disposizione, riguardante le funzioni e i provvedimenti che il
magistrato di sorveglianza è abilitato, rispettivamente, a svolgere
e ad adottare nelle materie di ordinamento penitenziario, stabilisce
che il magistrato medesimo "decide con ordinanza impugnabile soltanto
per cassazione, secondo la procedura di cui all'art. 14-ter sui
reclami dei detenuti e degli internati concernenti l'osservanza delle
norme riguardanti: a) l'attribuzione della qualifica lavorativa, la
mercede e la remunerazione nonché lo svolgimento delle attività di
tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali; b) le condizioni di
esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza
dell'organo di disciplina, la contestazione degli addebiti e la
facoltà di discolpa". L'art. 14-ter richiamato dalla norma
denunciata, pone, a sua volta, le regole procedurali del reclamo,
relativamente alla proposizione (comma 1), alla trattazione in
udienza in camera di consiglio (comma 2), al contraddittorio -
realizzato tramite la partecipazione personale del difensore e del
pubblico ministero nonché la possibilità, riconosciuta
all'interessato e all'amministrazione penitenziaria, di presentare
memorie - (comma 3) e alla decisione del giudice in forma di
ordinanza (comma 2) (con ulteriore rinvio (comma 4), per quanto non
diversamente disposto, alle disposizioni del capo II-bis del titolo
II della legge n. 354).
Il giudice rimettente è stato investito da reclami proposti da due
detenuti, a norma dell'art. 35 della legge n. 354 del 1975, avverso
determinazioni dell'amministrazione penitenziaria che hanno disposto
il "trattenimento" di stampa periodica loro inviata dall'esterno del
carcere, trattenimento disposto a causa dell'asserito contenuto
osceno delle pubblicazioni. Essendo chiamato a decidere secondo la
procedura stabilita in genere dall'art. 35 citato, una procedura
priva dei caratteri propri della giurisdizione quali delineati invece
nel denunciato art. 69, comma 6, di tale mancanza egli appunto si
duole, in riferimento ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza
della legge (art. 3 della Costituzione) sotto il profilo del diritto
alla tutela giurisdizionale (art. 24 della Costituzione). La
procedura non giurisdizionale delineata dall'art. 35 dell'ordinamento
penitenziario, nel caso di reclami che prospettano la lesione
"immediata e diretta" di beni o di diritti costituzionalmente
garantiti - ciò che, nella specie, si verificherebbe, relativamente
al diritto garantito dall'art. 21 della Costituzione - risulterebbe
irragionevole in rapporto con le garanzie di giurisdizionalità che
la norma denunciata riconosce nelle decisioni sui reclami in materia
di lavoro e di disciplina carceraria. Tale procedura, inoltre,
derogherebbe senza ragione al principio di "giurisdizionalizzazione"
dell'esecuzione penale, imperniata sulla figura del magistrato di
sorveglianza.
1.2. - Da questa esposizione, risulta la necessità di una
puntualizzazione dei termini della questione che tenga conto della
sua configurazione additiva, comprendente quindi una parte
dichiarativa della incostituzionalità dell'omissione legislativa e
una parte ricostruttiva della disciplina necessaria a superarla.
La norma in applicazione della quale il giudice rimettente è
chiamato nella specie a provvedere è quella contenuta nell'art. 35
della legge di ordinamento penitenziario che prevede una procedura
ritenuta incostituzionale perché priva di caratteri di
giurisdizionalità sufficienti. L'art. 69 della medesima legge, del
quale l'ordinanza di rimessione finisce conclusivamente per
denunciare l'incostituzionalità in quanto la sua portata applicativa
sarebbe ingiustificatamente limitata ai due casi espressamente
previsti, occupa, nella formulazione della questione, un posto
diverso: valendo, oltre che come tertium comparationis per
argomentare l'irrazionalità della carenza di garanzie
giurisdizionali propria dell'art. 35, come elemento normativo idoneo
a colmare, attraverso la sua estensione, l'anzidetta carenza.
In breve: l'art. 35 ha a che vedere con l'incostituzionalità da
dichiarare; l'art. 69, con la disciplina da costruire, in luogo di
quella che si pretende incostituzionale. Per la risoluzione della
questione proposta, entrambe le disposizioni devono essere prese in
considerazione, ciascuna per la parte che le spetta.
2. - Così configurata, la questione è fondata, nei termini di
seguito precisati.
3.1. - L'idea che la restrizione della libertà personale possa
comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni
soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento
all'organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento
costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e
dei suoi diritti.
I diritti inviolabili dell'uomo, il riconoscimento e la garanzia
dei quali l'art. 2 della Costituzione pone tra i principi
fondamentali dell'ordine giuridico, trovano nella condizione di
coloro i quali sono sottoposti a una restrizione della libertà
personale i limiti a essa inerenti, connessi alle finalità che sono
proprie di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale
condizione. La restrizione della libertà personale secondo la
Costituzione vigente non comporta dunque affatto una capitis
deminutio di fronte alla discrezionalità dell'autorità preposta
alla sua esecuzione (sentenza n. 114 del 1979).
L'art. 27, terzo comma, della Costituzione stabilisce che le pene
non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e
devono tendere alla rieducazione del condannato. Tali statuizioni di
principio, nel concreto operare dell'ordinamento, si traducono non
soltanto in norme e direttive obbligatorie rivolte all'organizzazione
e all'azione delle istituzioni penitenziarie ma anche in diritti di
quanti si trovino in esse ristretti. Cosicché l'esecuzione della
pena e la rieducazione che ne è finalità - nel rispetto delle
irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina - non possono mai
consistere in "trattamenti penitenziari" che comportino condizioni
incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si
trovano nella restrizione della loro libertà. La dignità della
persona (art. 3, primo comma, della Costituzione) anche in questo
caso - anzi: soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo è la
precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in
condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla
società civile - è dalla Costituzione protetta attraverso il
bagaglio degli inviolabili diritti dell'uomo che anche il detenuto
porta con sé lungo tutto il corso dell'esecuzione penale,
conformemente, del resto, all'impronta generale che l'art. 1, primo
comma, della legge n. 354 del 1975 ha inteso dare all'intera
disciplina dell'ordinamento penitenziario.
Al riconoscimento della titolarità di diritti non può non
accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi a
un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale. Il principio
di assolutezza, inviolabilità e universalità della tutela
giurisdizionale dei diritti esclude infatti che possano esservi
posizioni giuridiche di diritto sostanziale senza che vi sia una
giurisdizione innanzi alla quale esse possano essere fatte valere
(sentenza n. 212 del 1997). L'azione in giudizio per la difesa dei
propri diritti, d'altronde, è essa stessa il contenuto di un
diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da
annoverarsi tra quelli inviolabili, riconducibili all'art. 2 della
Costituzione (sentenza n. 98 del 1965) e caratterizzanti lo stato
democratico di diritto (sentenza n. 18 del 1982): un diritto che non
si lascia ridurre alla mera possibilità di proporre istanze o
sollecitazioni, foss'anche ad autorità appartenenti all'ordine
giudiziario, destinate a una trattazione fuori delle garanzie
procedimentali minime costituzionalmente dovute, quali la
possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e
l'impugnabilità con ricorso per cassazione.
A questi orientamenti fondamentali, che rappresentano un
rovesciamento di prospettiva rispetto alle concezioni vigenti nel
sistema giuridico precostituzionale, l'ordinamento penitenziario -
materia di legge, alla stregua dell'art. 13 della Costituzione - deve
conformarsi.
3.2. - La questione di costituzionalità che la Corte è chiamata a
decidere non riguarda la difesa giudiziaria dell'insieme dei diritti
di cui il soggetto sottoposto a restrizione della libertà personale
sia titolare. Non riguarda innanzitutto i diritti che sorgono
nell'ambito di rapporti estranei all'esecuzione penale, i quali
trovano protezione secondo le regole generali che l'ordinamento detta
per l'azione in giudizio. Ugualmente estranee all'oggetto della
presente decisione sono le posizioni soggettive che possono venire in
considerazione nel momento applicativo degli istituti propri
dell'esecuzione penale, incidendo concretamente sulla misura e sulla
qualità della pena (istituti previsti, ad esempio, nei capi III e VI
del Titolo I della legge n. 354 del 1975). In tali casi, valendo
pienamente la riserva di giurisdizione prevista dall'art. 13, secondo
comma, della Costituzione (sentenza n. 349 del 1993), il codice di
procedura penale (art. 678, in relazione all'art. 666) ha configurato
il procedimento applicativo in termini sicuramente giurisdizionali,
affidandolo alla magistratura di sorveglianza, presso la quale le
posizioni soggettive di quanti si trovino a subire una pena
limitativa della libertà possono trovare adeguata protezione.
La presente questione di legittimità costituzionale riguarda
invece specificamente la tutela giurisdizionale dei diritti la cui
violazione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a
restrizione della libertà personale e dipenda da atti
dell'amministrazione a esso preposta. Occorre precisare, in contrasto
con l'impostazione data alla questione dal giudice rimettente: di
tutti i diritti rientranti in questo àmbito, non essendo possibile,
considerando la portata generale degli artt. 24 e 113 della
Costituzione, distinguere, per assicurare la garanzia giurisdizionale
solo ai primi, tra diritti aventi e diritti non aventi fondamento
costituzionale.
Specificamente, si tratta della tutela dei diritti suscettibili di
essere lesi per effetto (a) del potere dell'amministrazione di
disporre, in presenza di particolari presupposti indicati dalla
legge, misure speciali che modificano le modalità concrete del
"trattamento" di ciascun detenuto; ovvero per effetto (b) di
determinazioni amministrative prese nell'ambito della gestione
ordinaria della vita del carcere (come sarebbe avvenuto, ad avviso
del giudice rimettente, nel giudizio che ha dato luogo alla presente
questione di costituzionalità). La questione prospettata invita a
procedere oltre nell'opera, intrapresa da tempo dal legislatore e
dalla giurisprudenza, di diffusione delle garanzie giurisdizionali
entro le istituzioni preposte all'esecuzione delle misure restrittive
della libertà personale, innanzitutto gli istituti carcerari, e a
perseguire in tal modo, come obiettivo, la sottoposizione della vita
in tali istituti ai principi e alle regole generali dello stato di
diritto.
Questa Corte ha da tempo abbandonato l'originario indirizzo che,
facendo leva sul carattere esecutivo delle misure prese nell'ambito
del "trattamento" penale - secondo le matrici storiche
dell'ordinamento penitenziario in cui è stata collocata la
magistratura di sorveglianza -, insisteva sulla natura amministrativa
tanto delle misure stesse quanto delle eventuali garanzie che
l'ordinamento penitenziario avesse previsto (fase che dalla ordinanza
n. 87 del 1978, attraverso la sentenza n. 103 del 1984 e l'ordinanza
n. 166 del 1984, giunge fino alla ordinanza n. 77 del 1986). In un
momento successivo, la giurisprudenza costituzionale si è
arricchita, rendendosi più duttile, attraverso l'accoglimento della
distinzione, elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, tra
provvedimenti relativi alle modalità dell'esecuzione della pena
negli istituti a ciò destinati - attratti nell'area della
amministrazione e dei soli rimedi di indole amministrativa - e
provvedimenti riguardanti la misura e la qualità della pena, e
spesso attinenti a momenti di vita extracarceraria, attratti invece
nell'area della giurisdizione, alla stregua della riserva
costituzionale di giurisdizione (oltre che di legge) vigente in
materia (in proposito, sentenze nn. 349 e 410 del 1993; 227 del
1995).
Più di recente, tuttavia, questa Corte, chiamata a pronunciarsi
sulla legittimità costituzionale del potere amministrativo di
sospensione, per ragioni particolari di ordine e sicurezza,
dell'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e
degli internati (art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario), con le
sentenze nn. 349 e 410 del 1993, 351 del 1996 e 376 del 1997, ha
negato rilievo alla suddetta distinzione tra i diversi provvedimenti,
sulla base del riconoscimento che anche in situazioni di restrizione
della libertà personale, sussistono diritti che l'ordinamento
giuridico protegge indipendentemente dai caratteri della ipotizzabile
lesione. Con la sentenza n. 212 del 1997, l'esigenza costituzionale
del riconoscimento di un diritto d'azione in un procedimento avente
caratteri giurisdizionali si è infatti affermata indipendentemente
dalla natura dell'atto produttivo della lesione, individuandosi la
sede della tutela nella magistratura di sorveglianza, magistratura
alla quale spetta, secondo l'ordinamento penitenziario vigente, una
tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti e
degli internati. Una garanzia - è stato altresì precisato - che
comporta il vaglio di legittimità pieno non solo del rispetto dei
presupposti legislativi dettati all'amministrazione per l'adozione
delle misure, ma anche dei loro contenuti, con particolare
riferimento all'incidenza su non comprimibili diritti dei detenuti e
degli internati, la cui garanzia rientra perciò, nel sistema
attuale, nella giurisdizione del giudice ordinario.
Muovendosi nel medesimo ordine di idee, questa Corte, con la stessa
sentenza da ultimo citata - concernente il diritto dei condannati al
colloquio col difensore - ha affermato che il procedimento di reclamo
presso il magistrato di sorveglianza, previsto dall'art. 35, n. 2,
della legge di ordinamento penitenziario, costituisce sede idonea
alla proposizione della questione incidentale di legittimità
costituzionale delle leggi. Anche la proposizione dell'incidente di
costituzionalità, infatti, costituisce espressione del diritto di
difesa, in questo caso contro le leggi incostituzionali, e deve
pertanto - come questa Corte ha numerose volte affermato - essere
ammessa tutte le volte in cui non sussistano vie alternative per
farlo valere.
3.3. - L'idoneità del procedimento su reclamo davanti al
magistrato di sorveglianza a essere luogo di promuovimento della
questione incidentale di legittimità costituzionale, ai sensi degli
artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della
legge 11 marzo 1953, n. 87, e quindi l'affermata sufficienza dei
caratteri di giurisdizionalità - specificamente in relazione al
carattere soggettivo del procedimento - ai fini della proposizione
della questione stessa non vale tuttavia affatto come riconoscimento
dell'idoneità di tale procedimento sotto il diverso rispetto della
garanzia del diritto costituzionale di azione in giudizio. Ed è
precisamente sotto questo aspetto che viene sollevata, e sollevata
fondatamente, la presente questione di legittimità costituzionale.
Il procedimento che si instaura attraverso l'esercizio del generico
diritto di "reclamo", delineato nell'art. 35 dell'ordinamento
penitenziario, nonché nell'art. 70 del regolamento di esecuzione
(d.P.R. 29 aprile 1976, n. 431) è, all'evidenza, privo dei requisiti
minimi necessari perché lo si possa ritenere sufficiente a fornire
un mezzo di tutela qualificabile come giurisdizionale. Quale semplice
veicolo di doglianza, il reclamo è indirizzato a eterogenee
autorità amministrative o politiche (il direttore dell'istituto, gli
ispettori del Ministero, il direttore generale per gli istituti di
prevenzione e pena, il Ministro di grazia e giustizia, il presidente
della giunta regionale, il Capo dello Stato: nn. 1, 4 e 5 dell'art.
35), o soggetti estranei all'organizzazione penitenziaria ma
interessati all'esecuzione delle pene, sotto il profilo della
legalità e della tutela della salute (le autorità giudiziarie e
sanitarie in visita all'istituto: n. 3), o, infine, al magistrato di
sorveglianza (n. 2). Nulla è previsto circa le modalità di
svolgimento della procedura o l'efficacia delle decisioni
conseguenti. Solo per il reclamo a coloro i quali, rispetto
all'esecuzione delle pene, sono investiti di una specifica
responsabilità - l'amministrazione penitenziaria e il magistrato di
sorveglianza - è previsto un obbligo di informazione, verso il
detenuto che ha presentato il reclamo, "nel più breve tempo
possibile ... dei provvedimenti adottati e dei motivi che ne hanno
determinato il mancato accoglimento" (art. 70, quarto comma, del
d.P.R. n. 431 del 1976), un obbligo generico cui non corrisponde
alcun rimedio in caso di violazione e che, comunque, è fine a se
stesso, non essendo preordinato all'esercizio conseguente di un
diritto di impugnativa da parte dell'interessato. E in effetti è
consolidata giurisprudenza (a) che la decisione del magistrato è
presa de plano, al di fuori cioè di ogni formalità processuale e di
ogni contraddittorio; (b) che la decisione che accoglie il reclamo si
risolve in una segnalazione o in una sollecitazione
all'amministrazione penitenziaria, senza forza giuridica cogente e
senza alcuna specifica stabilità, e (c) che avverso la decisione del
magistrato di sorveglianza non sono ammessi né ulteriori reclami al
tribunale di sorveglianza né, soprattutto, il ricorso per
cassazione.
Da tutto questo si trae che il reclamo di detenuti o internati,
ancorché rivolto al magistrato, non si distingue da una semplice
doglianza, in assenza di alcun potere dell'interessato di agire in un
procedimento che ne consegua. Ciò che si presenta, senza necessità
di alcun'altra considerazione, contrario alla garanzia che la
Costituzione prevede nel caso della violazione dei diritti.
3.4. - Poiché nella norma che riconosce una possibilità di
generica doglianza ai detenuti e agli internati, vale a dire
nell'art. 35 dell'ordinamento penitenziario, mancano del tutto i
caratteri obiettivi della giurisdizione, il giudice rimettente
rivolge la sua attenzione alle previsioni, contenute nell'art. 69,
comma 6, in collegamento con l'art. 14-ter che, in casi particolari
quali i reclami concernenti l'osservanza delle norme riguardanti il
lavoro e l'esercizio del potere disciplinare sui detenuti e sugli
internati, delineano un procedimento davanti al magistrato di
sorveglianza contrassegnato invece da elementi giurisdizionali e di
tali previsioni chiede, attraverso una pronuncia costituzionale
additiva, un'estensione del campo applicativo.
Tali previsioni, nella sostanza della prospettazione della
questione costituzionale, rappresenterebbero, oltre che il tertium
comparationis argomentativo dell'irrazionalità denunciata, anche il
dato normativo che, attraverso la sua estensione alle ipotesi carenti
di tutela giurisdizionale, dovrebbe consentire di "chiudere" la
questione.
Non è tuttavia così. La rilevata incostituzionalità per
omissione, nella disciplina dei rimedi giurisdizionali contro le
violazioni dei diritti dei detenuti e degli internati, si presta a
essere rimediata attraverso scelte tra una gamma di possibilità,
relative all'individuazione sia del giudice competente sia delle
procedure idonee nella specie a tenere conto dei diritti in
discussione e a proteggere la funzionalità dell'esecuzione delle
misure restrittive della libertà personale.
Tali scelte, nell'ordinamento penitenziario attuale, il legislatore
ha compiuto caso per caso, in relazione a esigenze singolarmente
considerate e secondo gradi diversi di articolazione e completezza
degli schemi processuali di volta in volta utilizzabili: (a) dal
ricordato rimedio ex art. 14-ter dell'ordinamento penitenziario - di
cui il giudice rimettente chiede una generalizzazione - apprestato
sia per la decisione del magistrato di sorveglianza sui reclami dei
detenuti in materia di lavoro e in quella disciplinare, in base
all'impugnato art. 69 della legge n. 354 del 1975, sia per le
controversie dinanzi al tribunale di sorveglianza ai fini del
controllo dei provvedimenti che impongono il regime di sorveglianza
particolare a norma dell'art. 14-bis della legge citata, sia,
infine, per il controllo giurisdizionale del tribunale sui
provvedimenti del Ministro di grazia e giustizia che dispongono il
regime detentivo di particolare rigore previsto dall'art. 41-bis
comma 2, della stessa legge, in presenza di gravi motivi di ordine e
sicurezza pubblica; (b) al rimedio dinanzi al collegio (tribunale di
sorveglianza o corte d'appello), previsto negli artt. 30-bis e 30-ter
della legge di ordinamento penitenziario, in tema di mancata
concessione di permessi e permessi-premio cui, con la sentenza n. 227
del 1995 di questa Corte, è stato riconosciuto carattere
giurisdizionale; (c) al mezzo di verifica, ancora dinanzi a un
giudice collegiale, del mancato computo nel periodo di detenzione del
tempo trascorso in permesso-premio o licenza (art. 53-bis comma 2,
della legge n. 354), riconfigurato, a seguito della sentenza n. 53
del 1993 di questa Corte, attraverso la sostituzione del modulo
semplificato dell'art. 14-ter con quello disciplinato dal nuovo
codice di rito negli artt. 678 e 666; (d) fino a questa ultima
disciplina, che ha rinnovato il procedimento di sorveglianza
contenuto nel capo II-bis del titolo II della legge n. 354 del 1975,
ma - per disposto dell'art. 236 disp. coord. cod. proc. pen. e per
interpretazione giurisprudenziale - limitatamente alle procedure
affidate al tribunale di sorveglianza, rimanendo dunque in opera il
precedente procedimento per le materie assegnate al giudice
monocratico.
In ogni caso, l'elemento fondamentale che accomuna tutti questi
rimedi posti a tutela di posizioni soggettive connesse all'esecuzione
di provvedimenti limitativi della libertà personale è la loro
idoneità ad assicurare la tutela, di volta in volta, dei diritti del
detenuto secondo modalità di natura giurisdizionale. Questa matrice
unitaria è stata in numerose occasioni valorizzata e sottolineata
dalla giurisprudenza di questa Corte, ogni volta che è stata
sottoposta al controllo di costituzionalità una normativa
riconducibile all'ambito del "trattamento" in carcere e alla relativa
gestione amministrativa. E ogni volta si è ribadita l'esigenza
costituzionale della garanzia della giurisdizione, escludendosi ogni
potere dell'amministrazione penitenziaria libero da controlli, a
fronte dei diritti dei detenuti (sentenze nn. 349 e 410 del 1993; 227
del 1995; 351 del 1996).
Ma, entro questa impostazione comune, i procedimenti e le varianti
previsti nei singoli casi sono numerosi e importanti, cosicché manca
un rimedio giurisdizionale che possa essere considerato di carattere
generale. Nel sistema della legge, il rimedio generale c'è ma è
costituito dalla procedura non giurisdizionale su reclamo generico.
Ma è di questo che, per l'appunto, il giudice rimettente
fondatamente si duole, senza peraltro che vi sia nell'ordinamento,
come s'è visto, la possibilità di individuare, oltre le discipline
singolari, una norma e una procedura giurisdizionale che questa Corte
sia abilitata a estendere e generalizzare.
4. - Per le considerazioni che precedono deve concludersi che la
questione proposta deve essere accolta per la parte in cui con essa
viene denunciata nella disciplina dell'ordinamento penitenziario, e
in particolare negli artt. 35 e 69, che disciplinano le funzioni e i
provvedimenti del magistrato di sorveglianza, un'incostituzionale
carenza di mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti di coloro che
si trovano ristretti nella loro libertà personale; ma allo stesso
tempo, che non può essere accolta l'indicazione rivolta a estendere,
a tale scopo, lo specifico procedimento che il medesimo art. 69, in
riferimento all'art. 14-ter prevede.
Pertanto, fondata essendo la questione di costituzionalità
relativamente al difetto di garanzia giurisdizionale ma gli strumenti
del giudizio di costituzionalità sulle leggi non permettendo di
introdurre la normativa volta a rimediare a tale difetto, non resta
che dichiarare l'incostituzionalità della omissione e
contestualmente chiamare il legislatore all'esercizio della funzione
normativa che a esso compete, in attuazione dei principi della
Costituzione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
quest'ultimo come sostituito dall'art. 21 della legge 10 ottobre
1986, n. 663, nella parte in cui non prevedono una tutela
giurisdizionale nei confronti degli atti della amministrazione
penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a
restrizione della libertà personale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 febbraio 1999.
Il Presidente: Vassalli
Il redattore: Zagrebelsky
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria l'11 febbraio 1999.
Il direttore della cancelleria: Di Paola
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