N. 58
SENTENZA 20-24 FEBBRAIO 1995
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: avv. Ugo SPAGNOLI;
Giudici: prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv.
Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 86, primo
comma, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in
materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza), promosso con l'ordinanza emessa il 17 maggio 1994
dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Noureddine
Bachri, iscritta al n. 584 del registro ordinanze 1994 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie
speciale, dell'anno 1994.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio dell'8 febbraio 1995 il Giudice
relatore Antonio Baldassarre.
Ritenuto in fatto
1. - Il Tribunale di Roma, giudice di rinvio nel procedimento
penale a carico di Noureddine Bachri, imputato del reato di cessione
di sostanza stupefacente, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale - in riferimento agli artt. 3, 25, terzo comma, e 27,
terzo comma, della Costituzione - nei confronti dell'art. 86, primo
comma, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n.
309, nella parte in cui obbliga il giudice a emettere,
contestualmente alla condanna, l'ordine di espulsione dallo Stato,
eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato
per uno dei reati previsti dagli articoli 73, 74, 79 e 82, commi 2 e
3, precludendogli, in forza dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p.,
la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta.
Il giudice rimettente premette che il giudizio a quo segue alla
pronunzia della Corte di cassazione che, annullando la sentenza dello
stesso Tribunale limitatamente alla parte in cui concedeva il
beneficio della sospensione condizionale della pena all'imputato
condannato a sei mesi di reclusione, per il reato previsto dall'art.
73 del d.P.R. n. 309 del 1990, ha fissato il "principio di diritto",
secondo il quale l'impugnato art. 86, primo comma, va interpretato
nel senso che impone al giudice, senza alcuna valutazione in concreto
della sussistenza della pericolosità sociale, di espellere dal
territorio nazionale, una volta espiata la pena, lo straniero
condannato per alcuni dei reati previsti dal testo unico in materia
di stupefacenti, precludendogli, in ragione dell'irrogazione della
misura di sicurezza dell'espulsione e in forza del divieto dell'art.
164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della sospensione
condizionale della pena inflitta.
Lo stesso giudice a quo ricorda, sempre in via di premessa, che
l'interpretazione appena menzionata appare del tutto isolata nella
giurisprudenza formatasi sull'art. 86 (nonché sul previgente art. 81
della legge 22 dicembre 1975, n. 685, dall'analogo contenuto), anche
con riferimento ad altre sentenze della Corte di cassazione, con le
quali l'istituto dell'espulsione in oggetto, essendo ricondotto alla
disciplina generale delle misure di sicurezza e presupponendo,
quindi, dopo l'abrogazione dell'art. 204 c.p. da parte dell'art. 31
della legge n. 663 del 1986, la valutazione in concreto della
pericolosità sociale del condannato, viene considerato come non
preclusivo della concessione della sospensione condizionale della
pena.
Ciò posto, il giudice rimettente, ritenendosi vincolato, come
giudice di rinvio, dal "principio di diritto" enunciato dalla
pronunzia di annullamento della Corte di cassazione, afferma che la
dovuta applicazione di tale principio gli impedirebbe di concedere la
sospensione condizionale della pena, nonostante che ricorrano nel
caso le condizioni oggettive e soggettive richieste dalla legge per
tale beneficio, a meno che l'interpretazione sostenuta dalla stessa
Corte di cassazione non si riveli contraria a Costituzione. E, in
effetti, continua il giudice a quo, considerare che l'espulsione in
oggetto sia una misura di sicurezza comportante eccezionalmente una
presunzione legale di pericolosità sociale e, quindi, un automatismo
nell'applicazione che prescinde da ogni accertamento in concreto da
parte del giudice della medesima pericolosità, è un'interpretazione
che sembra contrastare con gli artt. 3, 25, terzo comma, e 27, terzo
comma, della Costituzione.
Sotto il primo profilo, l'interpretazione contenuta nel "principio
di diritto" affermato dalla Corte di cassazione appare, innanzitutto,
viziata da irragionevolezza, comportando una ingiustificata deroga al
principio generale secondo il quale l'applicazione delle misure di
sicurezza debba avvenire previa la valutazione in concreto della
pericolosità sociale del condannato; in secondo luogo, la stessa
interpretazione sembra comportare una disparità di trattamento,
poiché non consentirebbe che, a situazioni del tutto simili sotto il
profilo soggettivo e oggettivo ai fini della concessione della
sospensione condizionale della pena, possa corrispondere un'identità
di valutazione a causa della preclusione connessa a un preteso
ingiustificato automatismo nell'applicazione di una misura di
sicurezza.
La stessa interpretazione sarebbe, poi, in contrasto con l'art.
25, terzo comma, della Costituzione, poiché postulerebbe la
sottoposizione a una misura di sicurezza in difetto di una previsione
legislativa: infatti, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 31
della legge 10 ottobre 1986, n. 663, l'accertamento in concreto della
pericolosità sociale del condannato appare necessario tanto all'atto
dell'applicazione della misura di sicurezza personale, quanto al
momento dell'esecuzione della stessa in caso di differimento.
Infine, l'impugnato art. 86, primo comma, come interpretato dalla
Corte di cassazione nella pronunzia di annullamento con rinvio,
violerebbe l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, per il fatto
che la misura di sicurezza dell'espulsione, ove automaticamente
applicata, inibirebbe allo straniero ogni possibilità di
reinserimento sociale, postulando che sempre e comunque lo straniero
continuerà a delinquere a prescindere da qualsiasi valutazione da
parte del giudice della effettiva pericolosità sociale del
condannato.
Né, conclude il giudice a quo, varrebbe obiettare che
l'espulsione rappresenti, nei riguardi dello straniero criminale, una
ormai prevalente linea politica rimessa alla valutazione del
legislatore e avallata da recenti sentenze della Corte costituzionale
sull'art. 7, commi 12- bis e 12- ter, della legge 28 febbraio 1990,
n. 39. In realtà, l'espulsione dello straniero regolata da queste
ultime disposizioni, prevista in alternativa alla custodia cautelare
e all'esecuzione della pena, è del tutto diversa da quella ora
esaminata, trattandosi di un provvedimento adottato soltanto su
richiesta dell'interessato o del suo difensore, e non già imposta.
2. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Riguardo alla pretesa violazione dell'art. 25, terzo comma, della
Costituzione, l'Avvocatura dello Stato rileva che quest'ultimo
articolo si limita a ribadire il principio di legalità in materia di
misure di sicurezza, che tuttavia non esclude la possibilità di
tipizzare specifiche ipotesi di pericolosità alle quali collegare,
in via obbligatoria e automatica, l'applicazione di determinate
misure indipendentemente da ogni altro accertamento o considerazione.
In ordine alla asserita violazione dell'art. 3 della Costituzione,
l'Avvocatura ricorda che la Corte costituzionale ha recentemente
posto in rilievo, in materia di espulsione, la peculiarità della
posizione dello straniero in relazione alla tutela di interessi
pubblici inerenti alla sanità pubblica, alla politica di
immigrazione e, ciò che rileva nel caso di specie, alla sicurezza e
all'ordine pubblico (nell'ipotesi: nel settore del traffico illecito
di sostanze stupefacenti).
Infine, relativamente al prospettato contrasto con l'art. 27,
terzo comma, della Costituzione, la difesa erariale osserva che
quest'ultima norma, riguardando le modalità esecutive della pena,
non esclude che al fatto oggettivo dell'accertata responsabilità
penale possano collegarsi ulteriori conseguenze in ordine alla vita
di relazione e alla sfera di capacità dell'interessato.
3. - In prossimità dell'udienza l'Avvocatura dello Stato ha
depositato un'ulteriore memoria eccependo l'inammissibilità della
questione. Quest'ultima, infatti, risolvendosi in una prospettazione
di dubbi interpretativi o, ad essere più precisi, nella formulazione
dell'auspicio che la Corte operi una scelta fra due diversi modi di
interpretare la norma impugnata, sembra prospettare un conflitto
giurisprudenziale, non certo un vizio di costituzionalità della
norma impugnata, e perciò, secondo la giurisprudenza costituzionale
(v. ordd. nn. 848 del 1988, 77 del 1990 e 269 del 1991, nonché sent.
n. 26 del 1990), dovrebbe esser dichiarata, innanzitutto,
inammissibile.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Roma, giudice di rinvio in un procedimento
penale a carico di uno straniero extracomunitario imputato del reato
di cessione di sostanza stupefacente, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale - per violazione degli artt. 3, 25, terzo
comma, e 27, terzo comma, della Costituzione - nei confronti
dell'art. 86, primo comma, del decreto del Presidente della
Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia
di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella
parte in cui obbliga il giudice a emettere, contestualmente alla
condanna, l'ordine di espulsione dallo Stato, eseguibile a pena
espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati
previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, precludendogli, in
forza dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della
sospensione condizionale della pena inflitta.
L'Avvocatura dello Stato eccepisce preliminarmente
l'inammissibilità della questione, adducendo che quest'ultima si
risolva nella prospettazione di un dubbio interpretativo e comporti,
quindi, la richiesta a questa Corte di dirimere un conflitto
giurisprudenziale scegliendo tra due diversi modi d'interpretare la
norma impugnata.
2. - L'eccezione d'inammissibilità va respinta, poiché, sin
dalla sentenza n. 30 del 1990, è stato ritenuto "consolidato
indirizzo di questa Corte" quello secondo il quale il giudice di
rinvio può sollevare, come avviene nel caso di specie, dubbi di
costituzionalità concernenti l'interpretazione normativa risultante
dal "principio di diritto" enunciato dalla Corte di cassazione:
dovendo, infatti, la norma, nel significato attribuitole dalla Corte
di cassazione, ricevere ancora applicazione nella fase di rinvio, "il
precludere che su di essa vengano prospettate questioni di
legittimità costituzionale comporterebbe un'indubbia violazione
delle disposizioni regolanti la materia (art. 1, legge costituzionale
9 febbraio 1948, n. 1, e art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87)"
(v. sent. n. 30 del 1990, nonché sentt. nn. 257 del 1994, 130 del
1993, 2 e 345 del 1987, 21 del 1982, 11 del 1981, 138 del 1977).
Ed invero, nel respingere analoghe eccezioni dell'Avvocatura dello
Stato, questa Corte ha chiarito, anche di recente, che, ai sensi
delle ora citate disposizioni regolanti l'accesso delle questioni nel
processo costituzionale, per aversi una questione di legittimità
costituzionale validamente posta, è sufficiente che il giudice a quo
riconduca alla disposizione contestata una interpretazione non
implausibile della quale egli, a una valutazione compiuta in una fase
meramente iniziale del processo, ritenga di dover fare applicazione
nel giudizio principale e sulla quale egli nutra dubbi non arbitrari,
o non pretestuosi, di conformità a determinate norme costituzionali
(v., ad esempio, sentt. nn. 31 del 1995, 463 del 1994, 51 del 1992,
64 del 1991, 41 del 1990). La stessa Corte ha, anzi,
significativamente precisato che la questione di costituzionalità è
validamente posta anche quando il giudice a quo, affermando
motivatamente di dubitare dell'orientamento giurisprudenziale
prevalente o dominante, ritiene di dover applicare la disposizione
contestata in un diverso o opposto significato normativo, sempreché
l'interpretazione offerta non risulti del tutto implausibile, e cioè
palesemente arbitraria (v. sentt. nn. 463 del 1994, 103, 112, 163,
344 del 1993, 436 del 1992).
Sicché può aversi questione d'interpretazione, anziché una di
costituzionalità, soltanto nei casi in cui il giudice rimettente non
individua profili di contrasto con determinati parametri
costituzionali o, anche se formalmente li indica, in realtà chiede
alla Corte di avallare determinate ipotesi interpretative senza
sostanzialmente prospettare, riguardo alle interpretazioni assunte,
dubbi di legittimità costituzionale (v., per quest'ultima ipotesi,
ord. n. 274 del 1991). Ma questo non è il caso dell'ordinanza
introduttiva del presente giudizio, nella quale il giudice a quo,
dopo aver illustrato il "principio di diritto" enunciato dalla Corte
di cassazione, concernente l'automatica sottoposizione dello
straniero alla misura di sicurezza dell'espulsione, e dopo aver
affermato di doverne fare applicazione nel giudizio principale,
manifesta il dubbio che quel principio sia contrario a determinate
norme della Costituzione, che comporterebbero la necessaria
valutazione da parte del giudice della sussistenza in concreto della
pericolosità sociale del condannato.
Né contro tale conclusione possono desumersi argomenti dalle
decisioni di questa Corte citate dall'Avvocatura dello Stato nella
propria memoria di udienza. Le sentenze ricordate dalla difesa
erariale, infatti, riguardano il diverso profilo d'inammissibilità
relativo a questioni proposte in modo "perplesso" o "alternativo" o
"ancipite" o "ipotetico", nel senso che in quei casi i giudici a
quibus prospettavano più possibilità interpretative della
disposizione contestata senza scegliere e, quindi, indicare quella
che essi ritenevano di dover applicare nel giudizio principale.
Questo orientamento, indubbiamente consolidato nella giurisprudenza
di questa Corte (v., ad esempio, sentt. nn. 117 del 1994, 51 del
1992, 473, 472 e 456 del 1989, ordd. nn. 325 e 227 del 1994, 207 del
1993, 548 del 1988), è diverso da quello prospettato dall'Avvocatura
dello Stato, poiché incide, innanzitutto, sulla problematica della
rilevanza della questione, cioè dell'applicabilità delle norme
impugnate nel giudizio principale, piuttosto che su quella della
prospettazione, o meno, della violazione di parametri costituzionali,
cioè della valida proposizione della questione nei suoi termini
essenziali, prescritti dall'art. 23 della legge n. 87 del 1953.
3. - La questione è fondata.
Il giudice rimettente contesta la legittimità costituzionale di
un "principio di diritto" enunciato dalla Corte di cassazione in una
sentenza di annullamento, con rinvio, di una precedente decisione
dello stesso Tribunale di Roma, con la quale a un cittadino
marocchino, condannato per cessione di sostanza stupefacente, era
stata concessa la sospensione condizionale della pena. Ponendosi in
una posizione contraria rispetto ad altre decisioni della stessa
Corte di cassazione, per le quali l'applicazione della misura di
sicurezza dell'espulsione prevista dall'art. 86, primo comma, del
d.P.R. n. 309 del 1990 comporta l'accertamento giudiziale della
pericolosità sociale del condannato, la sentenza di annullamento con
rinvio enuncia il "principio di diritto" secondo il quale la predetta
misura di sicurezza dell'espulsione, eseguibile a pena espiata,
dev'essere ordinata con la sentenza di condanna come conseguenza
automatica della commissione del reato di cui all'art. 73 dello
stesso testo unico, con l'effetto di costituire giuridico ostacolo,
per l'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., alla concessione della
sospensione condizionale della pena. Così interpretato, il citato
art. 86, primo comma, si pone in contrasto con l'art. 3 della
Costituzione.
Configurata quale misura di sicurezza - come ritengono la
giurisprudenza di merito e la stessa Corte di cassazione anche nella
sopra menzionata sentenza di annullamento con rinvio - l'espulsione
del condannato straniero prevista dall'art. 86, primo comma, del
d.P.R. n. 309 del 1990 va inquadrata nell'ambito dell'ordinamento
penale, nel quale, in seguito all'adozione dell'art. 31 della legge
10 ottobre 1986, n. 663 (che ha abrogato l'art. 204 c.p.), vige il
principio che "tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate,
previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto, è
persona socialmente pericolosa". Rispetto a tale principio generale
dell'ordinamento penale, un'ipotesi di presunzione ex lege della
qualità di persona socialmente pericolosa, come è configurata
dall'interpretazione contestata dal giudice a quo, dev'essere
sottoposta, sotto il profilo dell'accertamento della legittimità
costituzionale, al vaglio di un rigoroso scrutinio. Infatti,
qualunque sia la natura che ontologicamente si intende assegnare alle
misure di sicurezza, è indubitabile che le misure di sicurezza
personali comportano comunque la privazione o la limitazione della
libertà personale e, quindi, incidono in ogni caso su un valore che
l'art. 13 della Costituzione riconosce come diritto inviolabile
dell'uomo, sia esso cittadino o straniero (v., da ultimo, sent. n. 62
del 1994). Ed è giurisprudenza di questa Corte che, di fronte
all'incisione di beni di tal pregio, il controllo di
costituzionalità delle norme di legge contestate deve avvenire in
modo da garantire che il sacrificio della libertà sia giustificato
dall'effettiva realizzazione di altri valori costituzionali o non
vada incontro a ostacoli insormontabili costituiti dalla protezione
di altri valori costituzionali (v., ad esempio, sentt. nn. 63 del
1994, 81 del 1993, 368 del 1992, 366 del 1991).
Dall'interpretazione data dalla Corte di cassazione all'impugnato
art. 86, primo comma, con il "principio di diritto" contestato deriva
che quest'ultimo impone al giudice l'applicazione automatica
dell'ordine di espulsione nei confronti dello straniero condannato
per alcuno dei reati indicati dalla stessa disposizione censurata,
senza consentire ad esso l'accertamento della sussistenza in concreto
delle condizioni per un giudizio di pericolosità sociale del
condannato. In conseguenza di ciò, al giudice di merito è preclusa,
ai sensi dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione
della sospensione condizionale della pena inflitta, pur nelle ipotesi
nelle quali sussistano, come nel caso dedotto nel giudizio
principale, i requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla legge
per l'erogazione di tal beneficio.
Di fronte all'esistenza in concreto di tali requisiti, la predetta
preclusione evidenzia che l'art. 86, primo comma,
nell'interpretazione contestata dal giudice a quo, non contiene, per
chi abbia commesso i reati ivi indicati, altro presupposto legale,
per la determinazione presuntiva della pericolosità sociale del
soggetto, che il fatto della condizione di straniero del condannato.
Messa a confronto con le altre ipotesi di applicabilità della misura
di sicurezza dell'espulsione, previste dagli artt. 235 e 312 c.p., le
quali, pur essendo subordinate al presupposto di condotte obiettive
altrettanto gravi rispetto a quelle considerate nell'impugnato art.
86, primo comma, comportano pur sempre, in ossequio alla regola
generale stabilita dal ricordato art. 31 della legge n. 663 del 1986,
la valutazione da parte del giudice della sussistenza in concreto
della pericolosità sociale dello straniero condannato, l'ipotesi
contestata configura un'irragionevole disparità di trattamento. E
l'irragionevolezza risulta evidente se si considera anche che
l'applicazione della misura di sicurezza della espulsione senza la
valutazione del giudice alla stregua degli indici menzionati
dall'art. 133 c.p. (cui fa rinvio l'art. 203, cpv., c.p.) e la
conseguente preclusione della concessione della sospensione
condizionale della pena frappongono ingiustificati ostacoli, non
soltanto alla libertà personale, ma anche alle possibilità di
sviluppo della personalità del condannato in vista dell'eventuale
superamento della sua condizione come soggetto socialmente
pericoloso.
Né tale conclusione può essere efficacemente contrastata dal
richiamo, operato dall'Avvocatura dello Stato, alle sentenze di
questa Corte nn. 62 e 283 del 1994, relative all'espulsione dello
straniero prevista dall'art. 7, commi 12- bis e 12- ter, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, nel testo introdotto dall'art. 8,
primo comma, del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187. In quelle
decisioni, infatti, è stato precisato che l'espulsione ivi prevista
è un istituto diverso da quello ora considerato, trattandosi di
un'ipotesi di sospensione della esecuzione della custodia cautelare
in carcere, ovvero dell'espiazione della pena, condizionata dalla
richiesta dell'interessato (o del suo difensore), richiesta che - si
precisa nella sentenza n. 62 del 1994 - "rappresenta, come si deduce
anche dai lavori preparatori, un requisito diretto, nella
fattispecie, ad armonizzare la condizione dello straniero ai valori
costituzionali cui il legislatore deve riferirsi nel prevedere una
misura pur sempre incidente sulla libertà personale, cioè su un
diritto inviolabile dell'uomo".
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 86, primo comma,
del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti
e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei
relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui obbliga il
giudice a emettere, senza l'accertamento della sussistenza in
concreto della pericolosità sociale, contestualmente alla condanna,
l'ordine di espulsione, eseguibile a pena espiata, nei confronti
dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73,
74, 79 e 82, commi 2 e 3, del medesimo testo unico.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 1995.
Il Presidente: SPAGNOLI
Il redattore: BALDASSARRE
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 24 febbraio 1995.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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