Un quadro con luci e ombre. Con un dato certo: l’iniziativa dei cittadini europei (ICE) funziona a rilento e va perfezionata anche incrementando la diffusione di questo strumento tra i cittadini degli Stati membri. E’ quanto risulta dalla relazione presentata dalla Commissione europea, il 31 marzo, sui primi tre anni di funzionamento dell’iniziativa dei cittadini europei (eci_report_2015_en). D’altra parte, lo strumento ha festeggiato, proprio il 1° aprile, 3 anni ed è così evidente che alcune difficoltà sono apparse nella fase di attuazione effettiva. L’iniziativa, prevista nel Trattato di Lisbona e avviata con il regolamento Ue n. 211/2011 che punta a coinvolgere i cittadini (almeno un milione) nell’azione legislativa dell’Unione e perfezionata con il regolamento attuativo n. 268/2012 del 25 gennaio 2012 il quale richiede che, in almeno un quarto degli Stati sia raggiunto un numero minimo di firmatari di un’iniziativa dei cittadini che deve essere pari al numero di membri del Parlamento europeo eletti in ciascuno Stato membro moltiplicato per 750, conta, nei tre anni di operatività, 3 iniziative che hanno raggiunto la soglia di un milione di firme. Dieci sono state ritirate dagli organizzatori, 12 non hanno raggiunto la soglia, per 3 gli organizzatori stanno ancora raccogliendo le firme. Su 51 richieste sono 31 quelle registrate dalla Commissione. Sorprende, però, la diminuzione nell’utilizzo dello strumento: nel 2012 le iniziative registrate sono state 16, scese a 9 nel 2013, a 5 nel 2014. Nel 2015 se ne conta solo una. Sono i cittadini francesi quelli che partecipano di più, seguiti da tedeschi, italiani, inglesi e spagnoli. Sotto esame della Commissione, l’iniziativa “Stop vivisection” con il responso di Bruxelles atteso il 3 giugno. In alcune occasioni, gli organizzatori hanno già presentato ricorsi al Tribunale Ue e denunce al Mediatore europeo. Tra le difficoltà segnalate nel rapporto della Commissione i diversi requisiti applicati negli Stati membri e le difficoltà dei sistemi di raccolta firme per via elettronica che la Commissione sta tentando di superare con un nuovo software.

A questo link l’elenco delle iniziative ancora aperte alla firma http://ec.europa.eu/citizens-initiative/public/initiatives/ongoing e qui la pagina dedicata http://ec.europa.eu/citizens-initiative/public/welcome.

Si veda il post http://www.marinacastellaneta.it/blog/perfezionato-liter-per-i-controlli-sulle-firme-necessarie-ad-attuare-liniziativa-dei-cittadini-ue.html.

Scritto in: cittadinanza Ue | in data: 3 aprile 2015 |
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Un Relatore speciale per affrontare le questioni legate alla privacy nell’era digitale. Il Consiglio per i diritti umani, con la risoluzione adottata il 24 marzo 2015 (A/HRC/28/L.27, privacy), ha previsto l’istituzione di questa nuova figura che dovrà adottare ogni anno una relazione tenendo conto del quadro giuridico esistente sul piano internazionale e a livello nazionale nonché le prassi seguite dagli Stati. La protezione dei dati e la tutela della privacy sono messi a rischio dagli stessi Stati che, dimenticando gli obblighi internazionali, danno il via a intercettazioni in grado di minare la privacy. Il Consiglio, anche sulla base di un rapporto redatto da esperti a seguito del panel del 19 dicembre 2014 (A_HRC_28_39_ENG-1), chiede il rispetto degli obblighi internazionali anche quando si combatte il terrorismo, imponendo così l’adozione di strumenti che non calpestino i diritti umani. D’altra parte, che si corrano questi rischi è evidente laddove si consideri che, solo in extremis, proprio nei giorni scorsi, è stata evitata, in Italia, l’introduzione, nella legge di conversione del decreto legge sulla lotta al terrorismo, di una norma che, di fatto, avrebbe permesso acquisizioni di dati da remoto, su larga scala, con l’impiego di un software, sui computer di privati prevedendo altresì anche un allungamento dei termini di conservazione del traffico telematico e delle chiamate senza risposta.

Scritto in: ONU | in data: 3 aprile 2015 |
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Se manca il presupposto dell’effettivo esercizio del diritto di affidamento deve essere escluso il rientro del minore nei casi di sottrazione internazionale. Non basta, quindi, il regime astratto dell’affidamento legale per giustificare il ritorno. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, prima sezione civile, con sentenza n. 6139/15 del 26 marzo 2015 (sottrazione), chiamata ad applicare la Convenzione dell’Aja sulla sottrazione internazionale dei minori del 25 ottobre 1980, ratificata dall’Italia con legge 15 gennaio 1994 n. 64. A rivolgersi alla Cassazione è stata la madre di una bambina, che aveva impugnato il decreto del Tribunale di Catania il quale aveva disposto il ritorno della minore in Belgio, dal padre che si era rivolto all’Autorità centrale belga. La coppia si era separata e la donna aveva lasciato il Belgio, dove prima viveva con il marito, tornando in Italia. La Cassazione ha chiarito che presupposto per il ritorno del minore è che, al momento del trasferimento, il diritto di affidamento sia effettivamente esercitato dal richiedente senza che rilevino le cause e le ragioni del mancato esercizio. Così non era nel caso di specie senza che fossero indicate le cause e le ragioni del mancato esercizio, malgrado l’onere probatorio “riguardante l’effettivo esercizio del diritto di custodia” sia a carico del genitore non convivente. Non basta – osserva la Cassazione – basarsi sul regime astratto dell’affidamento legale o invocare un viaggio a Disneyland poiché il concreto esercizio di un potere genitoriale non deve avere carattere episodico. Va poi aggiunto che il padre aveva visto la bambina pochissime volte limitandosi ad esercitare il diritto di visita e non quello di custodia. La bambina, poi, era andata poche volte a scuola anche per difficoltà legate alla lingua del luogo. Di conseguenza è stato accolto il ricorso della madre, con annullamento, con rinvio, del provvedimento di ritorno del minore.

Scritto in: sottrazione internazionale di minori | in data: 2 aprile 2015 |
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Le autorità nazionali sono obbligate a informare gli stranieri, che entrano illegalmente sul territorio italiano, della possibilità di richiedere la protezione internazionale. Se non lo fanno, il respingimento è illegittimo così come il provvedimento di trattenimento. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sesta sezione civile – 1, con la sentenza n. 5926/15 depositata il 25 marzo (5926). La Suprema Corte ha accolto il ricorso di un cittadino nigeriano che era stato trattenuto nel centro di identificazione e di espulsione in vista dell’esecuzione del decreto di respingimento. Lo straniero aveva impugnato il decreto sostenendo di non aver ricevuto alcuna informazione sulla possibilità di richiedere asilo malgrado quanto previsto dalla direttiva 2013/32 recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, che impone di informare gli stranieri giunti in modo irregolare sul territorio Ue delle procedure di protezione internazionale. La Cassazione, chiarito che la direttiva in esame non è stata ancora recepita e che il termine per l’attuazione non è ancora scaduto, ha però precisato che sussiste l’obbligo di informare gli stranieri malgrado ciò non sia previsto dalle norme nazionali. Questo perché è necessario procedere all’interpretazione conforme e costituzionalmente orientata al rispetto delle norme interposte della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tra l’altro – osserva la Cassazione – proprio nel caso Hirsi contro Italia, Strasburgo ha precisato che l’obbligo di fornire informazioni, la cui assenza è spesso un ostacolo all’acceso alle procedure di asilo, è sancito dalla Convenzione. Così, la Cassazione ha ritenuto il respingimento illegittimo in assenza del preventivo dovere d’informazione che ostacola l’esercizio tempestivo del diritto di richiedere la protezione internazionale, illegittimità che si riverbera anche sul provvedimento di trattenimento.

Scritto in: asilo | in data: 1 aprile 2015 |

La Family Court inglese, con sentenza del 13 marzo 2015 [2015] EWFC 22 (22) ha dato il via libera all’adozione di un parental order a vantaggio della coppia ricorrente che aveva avuto due gemelli a seguito di un accordo di maternità surrogata in Ucraina. Malgrado l’assenza di alcuni requisiti richiesti dalla legge inglese, i giudici hanno deciso per il sì all’emissione del certificato tenendo conto dell’interesse e del benessere dei minori. A rivolgersi al tribunale è stata una coppia sposata da 38 anni,  di circa 60 anni che, non avendo avuto figli e dopo i tentativi infruttuosi con vecchie tecniche, ha deciso di ricorrere alla maternità surrogata in Ucraina. Sono nati così due gemelli. La coppia aveva concluso un contratto con la clinica ma era stato impossibile accertare se gli ovuli erano della ricorrente o della madre surrogata. La richiesta del parental order è stata fatta dopo sei mesi a causa del fatto che la donna era irrintracciabile e, quindi, i ricorrenti non avevano potuto ottenere il consenso alla richiesta del parental order così come la rinuncia della madre surrogata a ogni diritto. Malgrado queste lacune e l’impossibilità di notificare il provvedimento, la Family Court ha disposto l’adozione del parental order tenendo conto che, senza un simile provvedimento, i minori non avrebbero avuto una madre visto che la madre biologica si era allontanata facendo perdere ogni traccia. Pertanto, tenendo conto del duraturo benessere dei gemelli, è stato deciso di adottare il parental order a vantaggio dei genitori de facto.

Si vedano i post http://www.marinacastellaneta.it/blog/proseguono-i-lavori-della-conferenza-dellaja-sulla-maternita-surrogata.htmlhttp://www.marinacastellaneta.it/blog/maternita-surrogata-uno-studio-del-parlamento-europeo.html

Scritto in: procreazione assistita | in data: 1 aprile 2015 |
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Il ruolo dei diritti fondamentali e, in particolare della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. E’ il tema dello studio redatto dal servizio ricerca del Parlamento europeo e, in particolare da Francesca Ferraro e Jesús Carmona, intitolato “Fundamental Rights in the European Union” (PE 554.168, EPRS_IDA(2015)554168_EN). Lo studio si sofferma sull’incidenza della Carta, che è diventata un punto di riferimento per tutte le istituzioni Ue, nonché sui rapporti tra tale atto e gli altri strumenti internazionali a tutela dei diritti umani. Di fondamentale importanza il ruolo della Corte di giustizia dell’Unione europea che, sentenza dopo sentenza, ha fornito un quadro più chiaro sulla portata della Carta anche nelle aree non regolate dal diritto Ue. L’ultima parte è dedicata, seppure in modo sintetico, al parere  n. 2/13 (parere) reso dalla Corte di giustizia dell’Unione europea il 18 dicembre 2014, che ha bloccato l’attuale processo di adesione alla Convenzione europea dei diritti umani che dovrà riprendere tenendo conto dell’articolo 6 TUE. Come è noto, la Corte ha rilevato, che in ragione della particolarità dell’ordinamento giuridico dell’Unione, non possono essere trascurate alcune condizioni con la conseguenza che l’adesione non può produrre una modifica nelle competenze dell’Unione come definite dai Trattati, in linea con il Protocollo n. 8 secondo il quale l’accordo di adesione “deve garantire che siano preservate le caratteristiche specifiche dell’Unione”.

Si vedano i post http://www.marinacastellaneta.it/blog/raggiunto-laccordo-sulladesione-dellunione-europea-alla-cedu.html e http://www.marinacastellaneta.it/blog/adesione-dellue-alla-cedu-molti-i-nodi-da-sciogliere.html.

Scritto in: Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea | in data: 31 marzo 2015 |
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Sulla strada tracciata dalla Dichiarazione di Interlaken, di Izmis e di Brighton, il 27 marzo, gli Stati parti al Consiglio d’Europa, nel corso della Conferenza di alto livello sull’attuazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, hanno adottato la Dichiarazione di Bruxelles (Declaration_EN_tcm421-265137). Obiettivo prioritario assicurare un miglioramento nell’attuazione della Convenzione e delle sentenze della Corte da parte degli Stati nel segno del principio di sussidiarietà e di responsabilità. Al centro della Conferenza e della Dichiarazione il miglioramento nell’applicazione della Convenzione europea soprattutto con l’obiettivo di ridurre il carico di lavoro e l’arretrato anche per consentire alla Corte di decidere, entro un tempo ragionevole,  su casi nuovi che riguardano serie violazioni dei diritti umani.  Nel Piano d’azione allegato alla Dichiarazione di Bruxelles sono individuati tre punti essenziali A) gli aspetti legati all’interpretazione e all’applicazione della Convenzione da parte della Corte, con la possibilità di prevedere una breve motivazione nell’adozione di misure provvisorie e nelle decisioni di irricevibilità; B) l’attuazione della Convenzione a livello nazionale con la necessità di stabilire un’istituzione indipendente competente nel settore dei diritti umani; C) la supervisione e l’esecuzione delle sentenze, con un rafforzamento degli strumenti che hanno già hanno portato a un miglioramento nell’attuazione delle pronunce, come risulta dall’ultimo rapporto annuale del Comitato dei ministri.

Nella Dichiarazione, poi, si chiede agli Stati la ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16, sottolineando altresì l’importanza essenziale dell’adesione alla Cedu da parte dell’Unione europea.

Si veda il post http://www.marinacastellaneta.it/blog/adottata-la-dichiarazione-di-izmir-sul-futuro-della-cedu.html

Scritto in: CEDU | in data: 30 marzo 2015 |
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La detenzione in vista dell’estradizione che dura un anno e 6 mesi è una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo che, nella sentenza Gallardo Sanchez depositata il 24 marzo, ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 5, par. 1, che assicura il diritto alla libertà personale (AFFAIRE GALLARDO SANCHEZ c. ITALIE). A rivolgersi a Strasburgo è stato un cittadino venezuelano, detenuto in Italia in attesa dell’espletamento dell’iter di estradizione richiesta dalla Grecia. Il detenuto si era opposto all’estradizione e aveva chiesto di essere scarcerato. Nulla da fare: le sue istanze erano state respinte sino all’ultimo grado. Il procedimento, nel complesso, era durato un anno e 6 mesi. Un tempo eccessivo – scrive la Corte europea – che rende la detenzione illegittima e arbitraria. Tra l’altro, nei casi di estradizione finalizzata non a far scontare la pena ma allo svolgimento del processo, gli Stati hanno l’obbligo di una particolare diligenza proprio perché l’estradando è presunto innocente e le autorità giurisdizionali non possono svolgere alcun accertamento nel merito. In più, il caso all’attenzione delle autorità italiane non era affatto complesso e i giudici nazionali dovevano unicamente verificare il rispetto della Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957. Inoltre, la Corte europea ha evidenziato che vi è stato un periodo di inattività e la prima udienza è stata fissata dopo sei mesi dalla richiesta della Grecia, con la conseguenza che la detenzione non è giustificata. Stupisce, poi, la Corte europea il tempo impiegato dalla Cassazione per il deposito della pronuncia: ben 4 mesi per una sentenza di una pagina.

La Corte ha anche respinto i tentativi del Governo in causa che, in modo sorprendente, ha provato ad addossare la colpa al ricorrente il quale, opponendosi all’estradizione, avrebbe ritardato l’iter. L’esercizio di un diritto – conclude Strasburgo – non può certo essere utilizzato dallo Stato per liberarsi della propria responsabilità. Inevitabile così la condanna all’Italia per la detenzione illegittima.

Scritto in: estradizione | in data: 29 marzo 2015 |
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La Corte di cassazione, seconda sezione civile, con sentenza depositata il 19 marzo (5560/15, 5560) ha disposto la revoca di una precedente decisione della stessa Cassazione e l’annullamento della sentenza della Corte di appello di Perugia nella parte in cui, in via di fatto, quest’ultima ha disatteso l’interpretazione della legge Pinto che dispone l’indennizzo per la durata eccessiva dei processi anche alle persone giuridiche senza onere probatorio, salvo circostanze particolari. La Cassazione ha così accolto il ricorso di una società che era stata vittima di un processo civile troppo lungo. Il suo ricorso era stato respinto dalla Corte di appello di Perugia e dichiarato inammissibile dalla Cassazione con una sentenza del 2014 anche perché non era stato depositato l’avviso di ricevimento della notificazione della raccomandata. Con la pronuncia del 19 marzo, la Cassazione ha revocato la sentenza del 2014 e annullato la decisione della Corte di appello nella parte in cui non ha interpretato le norme interne alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, in più occasioni, ha riconosciuto il diritto per il danno non patrimoniale derivato dal processo troppo lungo anche alle persone giuridiche, senza che su queste ultime gravi un onere della prova. La durata eccessiva del processo procura un danno sulle persone giuridiche con un disagio sulle persone preposte alla gestione dell’ente e dei suoi membri e, di conseguenza, sulle persone giuridiche non può gravare, salvo circostanze particolari che conducano ad escludere l’esistenza del danno, l’onere della prova sul danno non patrimoniale subito. Di qui l’annullamento della pronuncia della Corte di appello che aveva dato atto della configurabilità del danno non patrimoniale imputando, però, alla società il difetto della prova. Ora la Corte di appello si dovrà pronunciare nuovamente attenendosi alle indicazioni della Cassazione.

Scritto in: durata dei processi | in data: 27 marzo 2015 |
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Prima del via libera al ricongiungimento familiare di un cittadino di un Paese terzo con il coniuge regolarmente residente in uno Stato Ue, le autorità nazionali possono prevedere misure di integrazione tra le quali una prova linguistica e di cultura del Paese di destinazione. Lo ha scritto l’Avvocato generale della Corte di giustizia dell’Unione europea, Kokott, nelle conclusioni depositate il 19 marzo (causa C-153/14, conclusioni). A Lussemburgo si sono rivolti i giudici olandesi a seguito del ricorso di due donne, una cittadina dell’Azerbaijan e una della Nigeria, che chiedevano il ricongiungimento con i due coniugi già soggiornanti legalmente nei Paesi Bassi. La legislazione olandese prevede che prima dell’ingresso le richiedenti effettuino una prova, ma le due donne avevano addotto problemi fisici e psichici che, però, le autorità nazionali non hanno ritenuto sufficienti per esonerarle. Nodo della questione è se le prove possano essere considerate come misure di integrazione ammissibili secondo l’articolo 7 della direttiva 2003/86 relativa al diritto al ricongiungimento familiare recepita in Italia con Dlgs n. 5/2007. L’Avvocato generale propende per questa soluzione e ritiene che le richieste olandesi possono essere considerate come misure di integrazione. Questo perché – scrive Kokott – la conoscenza linguistica elementare e una prova di cultura servono ad assicurare che una volta arrivate le donne possano integrarsi più facilmente.

Chiarito, quindi, che le misure sono ammissibili ai sensi della direttiva, l’Avvocato generale ha fissato alcuni paletti chiarendo che la misura deve essere proporzionale e finalizzata allo scopo perseguito, senza mettere a repentaglio l’efficacia pratica della direttiva sul ricongiungimento. Di qui la necessità che gli Stati, i quali dispongono di un certo margine di discrezionalità, prevedano sempre un esame delle circostanze individuali, procedendo a un accertamento caso per caso con una valutazione della natura e della solidità dei vincoli familiari. Senza trascurare l’obbligo di considerare le condizioni di salute, le capacità cognitive, il livello di formazione dei richiedenti. Non convince, invece, l’Avvocato generale la decisione di imporre una tassa pari a 350 euro per sostenere l’esame. Un onere troppo elevato che ostacola il ricongiungimento.

Scritto in: Corte di giustizia Ue | in data: 27 marzo 2015 |
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