In questa sezione potete consultare le nostre analisi di tutte le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea rilevanti in materia di asilo, divise in base all’anno di pubblicazione.
Sotto ogni sentenza viene qui presentata una breve introduzione e il link al pdf con la nostra analisi dettagliata.
Si tratta di una sezione in continuo aggiornamento. A breve saranno disponibili altre analisi e, naturalmente, mano a mano che la Corte pubblicherà nuove sentenze, noi provvederemo ad aggiornare questa pagina.
2008
C-133/06 – Parlamento europeo c. Consiglio, 6 maggio 2008
2009
C-19/08 – Petrosian, 29 gennaio 2009
C-465/07 – Elgafaji, 17 febbraio 2009
La causa in esame si interroga in merito all’interpretazione dell’art. 15, lett. c) della “Direttiva qualifiche” che contiene uno dei tre requisiti alternativamente necessari al fine del riconoscimento della protezione sussidiaria. In particolare, la Corte di Giustizia, con questa sentenza, cerca di fare chiarezza su un punto molto problematico della Direttiva Qualifiche e cioè cosa si debba intendere per minaccia grave ed individuale derivante da violenza indiscriminata. Un testo, questo dell’art. 15 lett. c), che contiene un’apparente contraddizione (minaccia individuale in un contesto di violenza indiscriminata) che i giudici di Lussemburgo sono qui chiamati a sciogliere.
La Corte conclude affermando che l’art. 15, lett. c) della Direttiva Qualifiche deve essere interpretato nel senso che la sussistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile non necessita della prova che il richiedente sia oggetto specifico di minaccia per motivi peculiari attinenti alla situazione personale. La minaccia si considera, infatti, provata, eccezionalmente, quando il conflitto armato in corso nel Paese di provenienza del richiedente è di tale gravità che la sola presenza del civile nel Paese in questione rappresenta di per sé un rischio effettivo di subire tale minaccia.
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2010
C-175/08 – Salahadin Abdulla e a., 2 marzo 2010
La causa in esame interpreta l’ipotesi di cessazione dello status di rifugiato prevista dall’art. 11, par. 1 lett. e), della Direttiva Qualifiche (Direttiva 2004/83/CE, oggi sostituita dalla Direttiva 2011/95/UE).
Le questioni più importanti in esame sono: 1) se si dà luogo alla cessazione dello status di rifugiato al venir meno del fondato timore di persecuzione, in assenza di motivi ulteriori di timore, 2) se, quando vengono meno le circostanze che avevano determinato il riconoscimento dello status, le eventuali nuove, differenti circostanze devono essere valutate sulla base di un criterio di probabilità differente rispetto a quello applicabile ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, 3) se si applica, o meno, a tali nuove circostanze, il regime di alleggerimento dell’onere della prova di cui all’art. 4 par. 4 della Direttiva Qualifiche nel caso in cui l’interessato abbia già subito atti o minacce di persecuzione.
La Corte afferma che cessa lo status di rifugiato quando vengono meno le circostanze alla base del fondato timore di persecuzione e non sussistono altri motivi di timore, purché il cambiamento sia significativo e non temporaneo e qualora il soggetto o i soggetti che offrono protezione nel Paese di origine abbiano adottato adeguate misure al fine di impedire il verificarsi di atti persecutori, garantendo l’accesso dell’interessato a questa protezione. L’esame del rischio relativo a nuove, differenti circostanze deve avvenire sulla base dello stesso criterio di probabilità applicato ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.
La norma di cui all’art. 4, par. 4 è applicabile, cioè si attribuisce una forte valenza probatoria ad atti o minacce precedenti di persecuzione ma, di regola, solo qualora l’interessato faccia valere circostanze diverse da quelle per cui era stato riconosciuto rifugiato. Ciò potrà di regola verificarsi solamente quando il motivo di persecuzione sia diverso da quello considerato al momento del riconoscimento dello status di rifugiato e vi siano atti o minacce di persecuzione precedenti collegati al motivo di persecuzione esaminato in tale fase.
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C-31/09 – Bolbol, 17 giugno 2010
C-57/09 – B e D, 9 novembre 2010
2011
C- 69/10 – Samba Diouf, 28 luglio 2011
Il giudice nazionale (lussemburghese) si rivolge con questa domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di Giustizia per sapere se, in base all’art. 39 della Direttiva procedure, la decisione di sottoporre la domanda di asilo ad una procedura accelerata debba, in ogni caso, essere soggetta alla possibilità di ricorso.
La risposta della Corte, a seguito del ragionamento che si espone nella scheda di analisi, è in negativo.
L’art. 39 e il principio di tutela giurisdizionale effettiva devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale in forza della quale non può proporsi ricorso autonomo avverso la decisione di un’autorità nazionale di esaminare la domanda di asilo seguendo la procedura accelerata, purché i motivi che hanno indotto detta autorità a ricorrere a tale procedura possano essere effettivamente sottoposti ad un controllo giurisdizionale in fase di ricorso contro il rigetto della domanda di asilo.
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C-411/10 – N. S. e a., 21 dicembre 2011
2012
C-620/10 – Kastrati, 3 maggio 2012
C-71/11 – Y e Z, 5 settembre 2012
C-179/11 – Cimade e Gisti, 27 settembre 2012
C-245/11 – K, 6 novembre 2012
C-277/11 – M.M., 22 novembre 2012
C-364/11 – Abed El Karem El Kott e a., 19 dicembre 2012
2013
C-175/11 – D. e A., 31 gennaio 2013
C-534/11 – Arslan, 30 maggio 2013
La sentenza fornisce l’interpretazione della Corte in merito a: 1) applicabilità o meno della c.d. “Direttiva Rimpatri” (Direttiva 2008/115/CE) ai richiedenti asilo; 2) cessazione o meno del trattenimento dello straniero che presenti una domanda di protezione internazionale qualora non sussistano altre ragioni di trattenimento.
Secondo la Corte, il richiedente asilo ha diritto a rimanere sul territorio dello Stato Membro in cui ha depositato la domanda fino al termine della procedura di primo grado o dell’eventuale ricorso e non può mai essere considerato in condizione di soggiorno irregolare: pertanto, la Direttiva Rimpatri non è applicabile ai richiedenti asilo.
In merito alla seconda questione la Corte afferma, tuttavia, che la normativa europea non osta al mantenimento del trattenimento di una persona che presenti domanda di asilo, se, in base ad una valutazione individuale delle circostanze, risulta che la domanda è stata presentata al solo scopo di ritardare o impedire il rimpatrio e che il trattenimento è necessario al fine di evitare che l’interessato si sottragga al rimpatrio.
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C-528/11 – Halaf, 30 maggio 2013
La sentenza in esame riguarda l’interpretazione dell’art. 3, par. 2 del Regolamento Dublino 2 (c.d. “clausola di sovranità” , attuale art. 17 par. 1 del Regolamento Dublino 3).
Secondo la Corte è sempre possibile, senza particolari condizioni, che uno Stato membro che non è quello individuato come Stato competente in base ai criteri del Regolamento Dublino, esamini una domanda di asilo. La c.d. “clausola di sovranità” non è infatti sottoposta ad alcuna particolare condizione.
Inoltre, la corte afferma che, in fase di determinazione dello Stato competente all’esame della domanda, non è obbligatorio (benché sempre possibile), chiedere il parere dell’UNHCR, quando risulta dagli atti di quest’ultimo che il paese individuato come Stato competente viola le norme dell’Unione sul diritto di asilo.
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C-648/11 – MA e a., 6 giugno 2013
C-199/12 – X e a., 7 novembre 2013
C-4/11 – Puid, 14 novembre 2013
C-394/12 – Abdullahi, 10 dicembre 2013
2014
C-285/12 – Diakité, 30 gennaio 2014
C-79/13 – Saciri e a., 27 febbraio 2014
C-604/12, H.N., 8 maggio 2014
Con questa richiesta di pronuncia pregiudiziale, la Corte di Giustizia UE è stata chiamata dalla Corte suprema d’Irlanda a pronunciarsi sulla conformità con il diritto dell’Unione – la direttiva qualifiche 2004/83/CE e il diritto a una buona amministrazione sancito dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta UE) – di una norma procedurale nazionale che subordina l’esame di una domanda di protezione sussidiaria al preventivo rigetto di una domanda volta al riconoscimento dello status di rifugiato.
Si tratta di un caso legato al particolare sistema di asilo irlandese che prevede due distinte procedure, l’una per il riconoscimento dello status di rifugiato, l’altra per il riconoscimento della protezione sussidiaria, con quest’ultima azionabile soltanto dopo il rigetto della prima (si veda qui la nostra scheda-Paese sull’Irlanda).
La Corte conclude nel senso che non è incompatibile con il diritto UE che l’esame della domanda di protezione sussidiaria sia subordinato al previo rigetto della domanda volta a ottenere lo status di rifugiato, ma a due condizioni:
- che le domande possano essere presentate contemporaneamente;
- che tale procedura non comporti una durata “irragionevole” della procedura di esame della domanda di protezione sussidiaria (sulla ragionevolezza o meno la Corte lascia che siano i giudici nazionali ad esprimersi).
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C-146/14 PPU – Mahdi, 5 giugno 2014
C-473/13 – Bero e a., 17 luglio 2014
Questa richiesta di pronuncia pregiudiziale ha permesso alla Corte di giustizia dell’Unione europea di precisare le condizioni secondo le quali gli Stati membri devono garantire il trattenimento dei cittadini di Paesi terzi in attesa di allontanamento in base alla direttiva 2008/115 (direttiva rimpatri). Nello specifico, la Corte è stata chiamata dai giudici di rinvio tedeschi a pronunciarsi sulla conformità con l’art. 16, par. 1, della direttiva rimpatri, di due decisioni con le quali le autorità competenti hanno ordinato il trattenimento degli interessati in istituti penitenziari e non, invece, in appositi centri di permanenza temporanea.
In altre parole, si tratta di una pronuncia d’interpretazione di una disposizione precisa della direttiva rimpatri i cui effetti possono, tuttavia, essere estesi all’art. 10, par. 1, della direttiva 2013/33 (direttiva accoglienza), che nei medesimi termini, e per i soli motivi in essa elencati, autorizza il trattenimento dei richiedenti protezione internazionale. E’ per questo motivo che ce ne occupiamo in questa sede.
Ai sensi dell’art. 16, par. 1, della direttiva rimpatri: “Il trattenimento avviene di norma in appositi centri di permanenza temporanea. Qualora uno Stato membro non possa ospitare il cittadino di un paese terzo interessato in un apposito centro di permanenza temporanea e debba sistemarlo in un istituto penitenziario, i cittadini di paesi terzi trattenuti sono tenuti separati dai detenuti ordinari”.
Nei medesimi termini, l’art. 10, par. 1, della direttiva accoglienza prevede che: “Il trattenimento dei richiedenti ha luogo, di regola, in appositi centri di trattenimento. Lo Stato membro che non possa ospitare il richiedente in un apposito centro di trattenimento e sia obbligato a sistemarlo in un istituto penitenziario, provvede affinché il richiedente trattenuto sia tenuto separato dai detenuti ordinari e siano applicate le condizioni di trattenimento previste dalla presente direttiva”.
Nell’interpretare l’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva rimpatri la Corte conclude che, come regola generale, ai fini dell’allontanamento di cittadini di Paesi terzi in situazione di soggiorno irregolare, gli Stati membri sono obbligati a trattenerli in appositi centri di permanenza temporanea. E ciò anche quando lo Stato membro in questione (come nel caso della Germania) abbia una struttura federale e lo Stato federato competente non disponga di un apposito centro di permanenza temporanea.
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C-141/12 – YS e a., 17 luglio 2014
C-148/13-150/13 – A. B. e C., 2 dicembre 2014
Dopo la sentenza resa poco più di un anno fa (7 novembre 2013) nelle cause riunite X, Y e Z, questa domanda di pronuncia pregiudiziale ha permesso alla Corte di fornire ulteriori precisazioni in merito alle condizioni di attribuzione dello status di rifugiato a richiedenti che invocano il proprio orientamento sessuale a fondamento del rischio di persecuzione nel Paese di origine.
Nello specifico, la Corte è stata chiamata dal giudice del rinvio olandese a pronunciarsi sulla conformità con il diritto dell’Unione – l’art. 4 della direttiva 2004/83/CE (Direttiva Qualifiche, oggi sostituta dalla Direttiva 2011/95/UE) e artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – di alcune modalità di valutazione delle dichiarazioni e delle prove documentali prodotte a sostegno del proprio orientamento sessuale dai tre richiedenti asilo.
Chiarito che l’orientamento sessuale dei richiedenti non può considerarsi un fatto assodato solo sulla base delle loro dichiarazioni – che rappresentano solo il punto di partenza nella valutazione – la Corte conclude escludendo la compatibilità con il diritto dell’Unione delle seguenti modalità di valutazione dell’omosessualità adottate dall’autorità giudicante o proposte dagli stessi richiedenti:
1. le valutazioni che si basano esclusivamente su stereotipi riguardo agli omosessuali violano il dovere di esame individuale e circostanziatocontemplato sia dalla Direttiva Qualifiche sia dalla Direttiva 2005/8/CE (Direttiva Procedure, oggi sostituita dalla Direttiva 2013/32/UE);
2. gli interrogatori dettagliati relativi alle pratiche sessuali del richiedente sono incompatibili con il diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dalla Carta;
3. la possibilità di accettare che il richiedente si sottoponga a un “test” idoneo a dimostrare la sua omosessualità e/o produca registrazioni video dei suoi atti intimi si pone in contrasto con il diritto al rispetto della dignità umana garantito dalla Carta;
4. la possibilità di dedurre l’assenza di credibilità dalla semplice circostanza che il richiedente non abbia invocato il proprio orientamento sessuale alla prima occasione concessagli viola nuovamente il dovere di esame individuale e circostanziato.
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C-542/13 – M’Bodj, 18 dicembre 2014
La sentenza trae origine dalla domanda di pronuncia pregiudiziale avanzata alla Corte di Giustizia dalla Corte costituzionale belga. In particolare, il giudice nazionale chiede alla Corte l’esatta interpretazione di alcuni articoli della Direttiva 2004/83/CE (Direttiva Qualifiche, oggi sostituita dalla Direttiva 2011/95/UE) al fine di chiarire se gli Stati membri sono obbligati a concedere assistenza sanitaria e sociale ai sensi degli articoli 28 e 29 della Direttiva, a un cittadino di un Paese terzo autorizzato a rimanere sul territorio sulla base di una normativa nazionale che fa riferimento a motivi di salute.
La sentenza è interessante in quanto permette alla Corte di svolgere un più ampio ragionamento sulla possibilità o meno che un caso come quello oggetto del procedimento principale – persona a rischio di deterioramento dello stato di salute a causa dell’assenza di terapie adeguate nel suo Paese di origine – rientri nella protezione sussidiaria e dunque nell’ambito di applicazione della Direttiva Qualifiche.
La Corte, dopo un ragionamento che si descriverà brevemente nelle righe che seguono, conclude nel senso che gli Stati sono tenuti a concedere l’assistenza sociale e sanitaria come prevista dagli articoli 28 e 29 della Direttiva Qualifiche esclusivamente ai beneficiari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria. Non sono invece tenuti a concedere tali benefici ai cittadini di Paesi terzi autorizzati dalla normativa interna (nazionale) a soggiornare per motivi di salute.
Secondo i giudici di Lussemburgo, tale autorizzazione al soggiorno – basata sul rischio effettivo di deterioramento dello stato di salute di un cittadino straniero affetto da una malattia grave, per la quale non esistono terapie adeguate nel suo Paese di origine – non equivale né al riconoscimento dello status di rifugiato né alla protezione sussidiaria, a meno che tale mancanza di cure non derivi da una privazione di assistenza inflitta intenzionalmente.
I giudici si spingono anche oltre, fino ad aggiungere che, in simili casi, non è possibile per gli Stati membri concedere la protezione nemmeno invocando la possibilità, prevista dall’art. 3 della Direttiva Qualifiche, di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli. Infatti, tale possibilità è condizionata al fatto che le eventuali disposizioni nazionali più favorevoli siano compatibili con la direttiva.
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C-562/13 – Abdida, 18 dicembre 2014
La sentenza in esame, che trae origine da una domanda di pronuncia pregiudiziale presentata alla Corte di giustizia dell’Unione europea dalla Corte del lavoro (Cour du travail) di Bruxelles (Belgio), va letta congiuntamente alla pronuncia emessa nel medesimo giorno (18 dicembre 2014) nel caso M’Bodj (trovate la relativa analisi in questa stessa pagina).
In effetti, se la decisione adottata dalla Corte di giustizia in quest’ultimo caso consente di sciogliere un dubbio interpretativo comune – vale a dire chiarisce che il cittadino di Paese terzo, affetto da una grave malattia, che corra il rischio effettivo di subire un trattamento inumano o degradante se rinviato nel Paese di origine sprovvisto di una terapia medica adeguata, non può invocare la protezione sussidiaria di diritto UE e, quindi, l’applicazione della direttiva 2004/83/CE (Direttiva Qualifiche, oggi sostituita dalla Direttiva 2011/95/UE) – la decisione adottata nel caso di specie permette di individuare una forma alternativa di protezione nella c.d. Direttiva Rimpatri (Direttiva 2008/115/CE)
La Corte, a seguito di un ragionamento che si descriverà nell’analisi completa, conclude nel senso che la direttiva rimpatri, letta alla luce della Carta dei diritti fondamentali, obbliga gli Stati membri a:
– conferire effetto sospensivo a un ricorso proposto contro una decisione che ordina a un cittadino di Paese terzo affetto da una grave malattia di lasciare il loro territorio, quando l’esecuzione di tale decisione può esporre tale cittadino a un serio rischio di deterioramento grave e irreversibile delle sue condizioni di salute, e
– prevedere la presa in carico, per quanto possibile, delle necessità primarie di detto cittadino di Paese terzo, al fine di garantire che le prestazioni sanitarie d’urgenza e il trattamento essenziale delle malattie possano effettivamente essere forniti nelle more del ricorso.
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2015
C-472/13 – Shepherd, 26 febbraio 2015
La sentenza in esame riguarda l’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 2, lett. b), c) ed e) della direttiva qualifiche (direttiva 2004/83/CE, ora rifusa nella direttiva 2011/95/UE) e in particolare la definizione di determinati atti come “atti di persecuzione” ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato a un disertore.
Con riferimento alle prime sette questioni pregiudiziali relative alla lett. e) dell’art. 9, paragrafo 2 la Corte di Giustizia chiarisce i seguenti punti fondamentali:
i) quali categorie di persone appartenenti alle forze armate siano tutelate dalla norma in esame: si deve concludere che la fattispecie ivi prevista si applica a tutto il personale militare, compreso il personale logistico e di sostegno. ii) se i crimini o reati discendenti dalla prestazione del servizio militare nel corso di un conflitto, debbano essere indotti o obbligati, “prevalentemente o in modo sistematico”, o se siano sufficienti singoli ordini operativi criminosi. Sul punto la Corte specifica che deve prendersi in considerazione “in modo oggettivo il contesto generale in cui tale servizio è prestato”; perciò, non è necessario dimostrare il coinvolgimento diretto del richiedente nella commissione dei fatti, essendo sufficiente anche una sua partecipazione indiretta, in grado però di fornire “con ragionevole plausibilità, un sostegno indispensabile alla preparazione o all’esecuzione degli stessi”. iii) se per riconoscere la protezione sia necessario che le violazioni del diritto umanitario che si adducono risultino certe “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ad avviso della Corte, è rilevante anche la sola probabilità che i crimini vengano commessi, non essendo necessario che si siano già verificati o che si rientri in una delle ipotesi di competenza della Corte Penale Internazionale. iv) se debba darsi valore al fatto che la comunità internazionale o un mandato delle Nazioni Unite abbiano legittimato l’intervento delle forze armate o lo statuto dell’occupazione: la risposta della Corte è positiva e tali circostanze devono essere considerate rilevanti. v) se sia rilevante il fatto che il richiedente protezione non sia ricorso alla procedura per aderire all’obiezione di coscienza: anche qui la risposta della corte è positiva; perciò, se il richiedente, pur avendo concretamente a disposizione tale procedura, ha omesso di ricorrervi, allora non potrà in alcun modo procedersi al riconoscimento della protezione in base alla norma in esame.
Sull’ultima questione pregiudiziale relativa alle lett. b) e c), paragrafo 2, articolo 9, la Corte chiarisce se possano essere considerati atti di persecuzione ai sensi della norma, provvedimenti di congedo con disonore e di condanna a una pena detentiva, da cui derivino ostracismo sociale e ripercussioni negative. Premettendo che spetta alle autorità nazionali la verifica di tali circostanze, qui la Corte risponde negativamente, ritenendo che tali atti non possono essere considerati “sproporzionati o discriminatori” al punto da rientrare nella nozione di atti di persecuzione, essendo coerenti con il “legittimo esercizio da parte dello Stato interessato del suo diritto di mantenere una forza armata”.
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