23 marzo 2015

Come raccontare gli occhi dei migranti



Noi italiani, popolo di accolti e di accoglienti. Nonostante tutto
Avvenire, 23-03-2015
Marco Tarquinio
Caro direttore,
scrivo “a caldo”, dopo aver ascoltato questa mattina (sabato 21 marzo, ndr) le parole quasi gridate dal Santo Padre a Scampia. Scrivo in particolare per una testimonianza diretta su uno degli argomenti toccati con forza da papa Francesco: emigrazione, accoglienza e solidarietà. In verità, ogni volta che ho sentito blaterare qualcuno sulla difesa delle nostre frontiere «ricacciando in mare gli indesiderati», avrei voluto scriverti perché preso da un senso di ribellione e vergogna insieme: ribellione contro una richiesta assolutamente indegna di un popolo civile; vergogna perché sono stato un emigrato anch’io e non ho dimenticato cosa voglia dire “stato di necessità” né quanto bene sono stato accolto in terra straniera. Per pudore e profondo rispetto per gli italiani, che penso quasi tutti d’accordo con papa Francesco, non ti ho scritto prima perché convinto che i nostri concittadini non hanno legami con certi capatáz che predicano solo il male; ho quindi ritenuto che non valesse la pena promuoverne le idee anche solo per denunciarle. Va però sottolineato che si tratta di persone che trovano spazi sempre più consistenti nei media, servizio pubblico compreso. Proprio per questo va ricordato che noi, dall’immediato dopoguerra agli anni 50, abbiamo subito le conseguenze devastanti della guerra. I suoi derivati: stato di indigenza ed esodo a carattere biblico. Sono state poche le famiglie del Nord, del Centro e del Sud Italia a non esserne state toccate. Valga un esempio per tutti: gli emigranti del Veneto non furono meno degli emigranti della Calabria. I Piemontesi, in Argentina, hanno fondato diverse città. Una di queste si chiama “Piamonte”, si trova in Provincia di Santa Fé e ha per dialetto il piemontese. In definitiva, nel resto del mondo gli Emigranti sono stati considerati come una “risorsa” e non una “piaga” da combattere. Anche in tempi di crisi. Forse è questa la strada da seguire. Vogliamo chiederci, cosa sarebbe accaduto se il resto del mondo ci avesse accolto come pochi capipopolo nostrani suggeriscono? Certo, l’accoglienza degli emigranti, qualsiasi fosse la loro nazionalità, non è stata uguale dappertutto. La mia esperienza? A 16 anni (tra qualche mese ne avrò 80) sono capitato nel Paese che considero il più ospitale del mondo: l’Argentina, patria di papa Francesco. Vi sono rimasto 12 anni. Laggiù, «quasi alla fine del mondo», sono diventato giornalista professionista e ho potuto viaggiare molto per servizi – tra gli altri – anche sull’emigrazione. In nessun Paese ho potuto riscontrare richieste e comportamenti ostentatamente ostili tipo quelli che qualcuno pretende oggi qui a casa nostra. Credo che questo sia quanto di peggio possa capitare a un Paese i cui emigranti negli ultimi decenni sono stati (e sono) quasi ovunque bene accolti. Grazie e buon lavoro.
Lucio Zampino
Su questa terra «siamo tutti migranti» e «nessuno di noi», ricco o povero che sia, in essa può vantare «dimora fissa». È davvero così. E noi italiani – come tu, caro Zampino, dici con la consapevolezza e la passione di chi ha vissuto l’emigrazione – dovremmo saperlo molto bene, per millenaria cultura e per lunga e diretta esperienza. Apparteniamo a una storia e la continuiamo, portiamo un’identità, generiamo una discendenza e relazioni forti e siamo chiamati a condividere un mondo che è casa comune, affidataci in custodia da un Padre che ha dato a ognuno e a tutti la stessa identica dignità e lo stesso identico diritto e dovere, un Padre che – noi cristiani lo sappiamo bene – «dobbiamo andare a trovare, uno prima, l’altro dopo...». Il Papa argentino, il Vescovo di Roma figlio di emigranti italiani restituito già anziano alla terra dei suoi antenati per servire la Chiesa universale, ce lo ha ricordato ieri da Napoli con semplice e straordinaria efficacia, con la libertà e la carità di chi non si concentra sulle pensate di politici o politicanti, ma sulla vita delle persone. Francesco lo ha fatto attraverso un ragionamento a braccio – a partire dalla questione che gli aveva proposto una signora filippina – sull’ingiustizia di volere e, peggio ancora, vivere una società nella quale le persone straniere venute a stare e a lavorare con noi – o che a noi, nella difficoltà e nella persecuzione, hanno chiesto aiuto – siano a stento riconosciuti come «figli di Dio» al pari nostro e, comunque, vengano (in)civilmente trattati da «cittadini di seconda classe». Io nonostante tutto, nonostante cioè slogan corrosivi, nonostante paure comprensibili e incomprensibili generalizzazioni contro il “diverso”, la penso come te, caro e saggio amico: tanti, tantissimi italiani non hanno affatto perso la memoria e hanno testa e cuore per vivere con umanità l’immigrazione così come i nostri padri (e, oggi, di nuovo non pochi nostri figli) l’emigrazione. Governare secondo giustizia e umanità questa condizione umana e, prima ancora, pensare gli altri (e, dunque, noi stessi) come la “ricchezza” che sono è la strada. Togliamo ascolto e potere a chi pensa, parla e fa male.



Richieste di asilo. Un problema europeo
Corriere della sera, 22-03-2015
Danilo Taino
Nel 2014 , 626 mila persone hanno chiesto asilo nell’Unione Europea: 191 mila in più che nel 2013 . Una crescita del 44% , risultato dell’aumento drammatico delle tensioni ai confini (e oltre) della Ue che dislocano intere popolazioni: 122.800 dei richiedenti, il 20% del totale, erano siriani (nel 2013 erano stati 50 mila ), 41.300 afgani (il 7% ) e 37.900 kosovari ( 6% ). Per avere un’idea della crescita: nel 2008 , le domande erano state 220 mila . Interessante vedere in quali Paesi queste persone che fuggono dalle loro zone colpite da guerre o da disastri di altro genere chiedono protezione: uno su tre , in Germania, il 13% in Svezia, un po’ più del 10% in Italia, un po’ meno del 10% in Francia, il 7% in Ungheria (la metà dei kosovari sceglie questa destinazione). In rapporto alla popolazione, il Paese Ue messo più sotto tensione dalle domande di ospitalità è la Svezia: 8,4 richiedenti ogni mille abitanti. Seguono l’Ungheria ( 4,3 per mille ), l’Austria ( 3,3 ), Malta ( 3,2 ), la Danimarca ( 2,6 ) e la Germania ( 2,5 ). L’Italia registra 1,1 richiedenti asilo ogni mille abitanti (un po’ sotto la media Ue, che è di 1,2 ).   
   L’Eurostat, dalla quale questi dati provengono, considera richiedente asilo una persona che domandi lo status di rifugiato o di meritevole di protezione (altra cosa dalla semplice immigrazione) sulla base dei pericoli che corre nel Paese di provenienza. Indipendentemente dal fatto che la domanda sia fatta alla frontiera d’ingresso o già all’interno del territorio dello Stato ospitante (anche nel caso d’ingresso illegale).    Sul totale delle 626 mila domande di asilo, nel 2014 la Ue ha dato 359.795 risposte (di prima istanza): 162.770 sono state positive. Meno della metà delle pratiche sbrigate hanno dunque accordato lo status o la protezione richiesti. In Italia, le domande sono state 64.625 (il 143% in più che nel 2013 , la crescita maggiore in Europa). I casi considerati sono stati 35.180 , dei quali 20.580 hanno avuto una risposta positiva. Più del doppio. Non si possono però fare paragoni sulla generosità delle politiche di accettazione perché le origini dei richiedenti cambiano da Paese a Paese: in Italia, per esempio, le pratiche considerate hanno visto ai primi tre posti pakistani, afgani e nigeriani mentre nel complesso della Ue si è trattato di siriani, afgani e iracheni. È però evidente che la questione dell’asilo deve prendere una dimensione sempre più europea.



Migranti in protesta, sgomberato il presidio
Venti persone denunciate per occupazione abusiva
Corriere.it, 23-03-2015
Sgomberato dalla polizia verso le 7.40 di domenica mattina il presidio di immigrati e italiani che si era formato nella serata di sabato e che è proseguito nella notte in centro, sotto il Quadriportico, a seguito della manifestazione dei centri sociali e degli immigrati contro la sanatoria per i permessi di soggiorno. Venti persone sono state portate in questura e denunciate. Quattro stranieri verranno invece espulsi perché non in regola con il permesso di soggiorno. Nel pomeriggio si è tenuta un’altra manifestazione con corteo non autorizzato che si è concluso alle 18 in piazza Loggia. E dove non si sono registrati scontri. È proseguito il dialogo con l’assessore Fenaroli in rappresentanza delle istituzioni, mentre gli antagonisti annunciano un’altra manifestazione per sabato 28 marzo.
Lo sgombero all’alba
La Questura di Brescia fa sapere «di aver circondato il quadriportico in piazza Vittoria “luogo di accampamento” occupato illecitamente dagli attivisti di diritti per tutti e magazzino 47 in pochi secondi tutti gli occupanti è stato ingiunto di allontanarsi, al loro rifiuto sono stati invitati a prendere posto a bordo di un bus appositamente fatto pervenire sul posto e quindi condotti in Questura per le procedure di rito».
Identificati
Ore 8.45 gli occupanti del quadriportico sono 20, di cui 10 di nazionalità italiana e 10 immigrati. Gli stranieri sono: 9 Pakistani e 1 del Bangladesh, mentre gli italiani sono tutti attivisti del centro sociale Magazzino 47. E’ presente pure Driss Ennya, delegato Cgil immigrazione — che immediatamente è stato informato di potersi allontanare poiché non vi era necessità di sottoporlo alle procedure di identificazione, ma che ha chiesto di poter rimanere ancora per dare la propria assistenza. Tutti gli altri vengono sottoposti alle rapide procedure di identificazione e rilasciati. Fatta eccezione per coloro che dovessero risultare da espellere sulla base della vigente normativa. In venti quindi sono stati denunciati per occupazione abusiva.
Le indagini
Copioso il materiale fotografico agli esami degli investigatori di Polizia e Carabinieri sulle ottemperanze e sugli illeciti compiuti ieri dai manifestanti e dagli antagonisti del centro sociale. Già vagliate numerose posizioni individuate precise responsabilità ed attribuiti singoli gravi comportamenti. Di tutto vengono costantemente e tempestivamente informati i vertici dell’autorità giudiziaria bresciana. Intanto — fa sapere la questura — si apprende dalla nota emittente radiofonica e dai siti antagonisti “la chiamata alla reazione” “all’azione di Polizia” effettuata dalle forze dell’Ordine sotto l’asserito avallo delle istituzioni politiche locali. In programma un’altra manifestazione nel pomeriggio.



Non solo immigrati, ma anche barche: l’affare degli sciacalli
Dopo la fine di Mare Nostrum gli scafisti sono più liberi di prima
Abbandonano i profughi e recuperano le navi
il Fatto, 22-03-2015
Valentina Petrini
inviata di Piazzapulita, La7
A BORDO. Valentina Petrini, inviata di Piazza Pulita con il film maker Fabio Colazzo, è stata a bordo della nave Dattilo della Guardia Costiera che ha salvato 10 mila migranti. Queste foto esclusive documentano come gli scafisti riescono a recuperare i barconi dopo aver abbandonato i passeggeri
A sud di Lampedusa. Il 3 marzo, alle sette del mattino, un barcone a 40 miglia dalle coste libiche chiama con il satellitare la centrale operativa della Guardia Costiera, che risponde da Roma. In balia del mare ci sono quaranta donne, due incinte, quindici bambini e un uomo in arresto cardiaco: lo tengono in vita con il massaggio e la respirazione bocca a bocca. Sono circa 800 in tutto i migranti da salvare. Il barcone è a otto ore di navigazione da dove ci troviamo noi in quel momento, a sud di Lampedusa. Tutti i mezzi nelle vicinanze vengono dirottati per il soccorso. Gli equipaggi della nave Dattilo e della Fiorillo della Guardia Costiera arrivano per primi. Mettono tutti in salvo ma il barcone, vuoto, resta al centro del Mediterraneo.
Sono le cinque del pomeriggio, arriva un'altra richiesta di soccorso: un naufragio, ci sono molti morti in mare. La Dattilo riaccende i motori: “Lo vedi lo sciacallo? Quel peschereccio laggiù”. È abbastanza grande e non sventola nessuna bandiera. A bordo, con il binocolo, si vedono solo le teste di quattro uomini, ben nascosti. “Appena ha visto il barcone vuoto sulla sua sinistra, ha rallentato, adesso ci gira intorno e aspetta che noi siamo più lontani... ”. Lo sciacallo, indisturbato, aggancia la barca deserta (nuova di zecca, al suo primo viaggio) e fa rotta verso la Libia.
Prima salvare i superstiti, poi inseguire i criminali
Al centro di questo Mediterraneo i criminali ormai fanno profitti non più solo attraverso il traffico di uomini, ma anche grazie al recupero dei barconi: ammortizzano i costi e aumentano i guadagni. La sera, quando i migranti dormono sotto le coperte termiche, a bordo della Dattilo si continua a parlare dello sciacallo: “Ormai capita sempre più spesso. Noi ci allontaniamo per correre da un soccorso all’altro e loro si riprendono le imbarcazioni. Ci fottono i barconi sotto gli occhi e non possiamo fare niente”. Mentre navighiamo di notte la memoria va all’estate scorsa. “Un giorno eravamo partiti da Pozzallo, navigazione a Sud di Lampedusa, a un certo punto dalla plancia un collega ha visto delle braccia agitarsi nell’acqua. Erano 39 uomini, alcuni aggrappati alle taniche di benzina, altri completamente nudi, qualcuno legato alle corde del gommone semi affondato”. Li hanno tirati fuori dall’acqua uno ad uno, in agonia. “In quel caso lo sciacallo non ha potuto recuperare nulla: il gommone è affondato. Abbiamo visto i superstiti per caso mentre eravamo in navigazione… Un ragazzo era completamente ustionato: gli si era rovesciata la tanica di benzina sulle gambe e il sole l’aveva praticamente fritto”.
Chi riporta una barca in Libia o in Tunisia senza farsi arrestare, dopo un primo viaggio guadagna il doppio. L’hanno capito anche gli uomini della Dattilo che in mezzo al mare ci stanno 365 giorni l’anno e in queste acque fanno di tutto: dai soccorsi umanitari alle azioni di polizia giudiziaria. Perché i barconi non si possono affondare? “Affondarli non è consentito dalle norme ambientali internazionali – spiega il comandante della Dattilo, Alessio Morelli – potrebbe esserci benzina a bordo e quindi inquinare il mare. È una legge e va rispettata. I barconi si possono e si devono, quando possibile, rendere inutilizzabili, oppure si trainano in porto, dove vengono sequestrati e smaltiti”. In questo caso non possiamo fermarci: il naufragio al quale dobbiamo prestare soccorso è a diverse ore di navigazione da dove ci troviamo. “Più tardi arriviamo – continua Morelli – più morti potrebbero esserci e ogni volta che perdiamo qualcuno, ti chiedi: e se fossimo arrivati dieci minuti prima? ”. Le regole d’ingaggio della Guardia Costiera sono chiare: prima il salvataggio poi, se resta tempo, l’attività di polizia. Le richieste di soccorso arrivano una dopo l’altra. Il 3 marzo, mentre eravamo in mare anche noi, in poche ore ne sono arrivate sette. Lo sciacallo l’ultima volta si è salvato grazie al naufragio: dieci i cadaveri recuperati e almeno cinquanta i dispersi.
Il barcone che fece la traversata due volte
Il 15 febbraio scorso, in queste acque, per la prima volta a Sud di Lampedusa, quattro trafficanti a bordo di un barchino veloce hanno aperto il fuoco contro una motovedetta della Guardia Costiera. Volevano riprendersi il barcone vuoto e per spaventare gli ufficiali (con 150 immigrati appena salvati a bordo) hanno mostrato i kalashnikov e sparato a pelo d’acqua.
A Roma ci sono le indagini dell'antiterrorismo, in Sicilia diverse procure hanno fascicoli aperti sugli ultimi sbarchi (Catania, Ragusa, Palermo). I trafficanti si muovono in queste acque come persone ben informate: conoscono le procedure SAR (search and rescue – ricerca e soccorso). Costringono i migranti a chiamare quasi subito la Centrale Operativa di Roma. Sanno che i soccorsi arrivano dopo sei-otto ore di navigazione. “L’estate scorsa è stata un inferno. Lavoravamo anche venti, venticinque giorni senza mai fermarci – raccontano gli uomini dell’equipaggio - All’inizio vedevamo questi sciacalli girarci intorno, ma non capivamo quali fossero le loro intenzioni”. Un giorno l’equipaggio della Dattilo soccorre una barca con circa trecento persone a bordo. Ci sono molti siriani, famiglie con bimbi e donne sole. I neri del centr’Africa, i più poveri, pagano meno per la traversata e quindi viaggiano nella stiva, attaccati al motore. I soccorritori notano un dettaglio: “Il barcone aveva una data scritta con la vernice, su un fianco: SAR 19 luglio 2014”. Era il 4 agosto, però, quando l’hanno soccorso. “Finalmente avevamo la prova di un sospetto: quel peschereccio era già stato utilizzato per un altro viaggio quindici giorni prima, poi recuperato, riportato in Libia e ricaricato. E quella era la seconda volta che lo ritrovavamo carico di migranti davanti alla Libia”. Un’organizzazione militare, non il gesto di qualche avventuriero. Quel barcone alla fine, è stato sequestrato. E la foto messa agli atti.
Con l’arrivo di Triton ci sono meno soldi e più sbarchi
Le regole d’ingaggio delle navi gestite dal ministero della Difesa, da quando Mare Nostrum si è interrotto, sono cambiate. Cosa fanno, quindi, davanti alle coste del Nord Africa, il 3 marzo scorso le navi della marina militare? Sono loro ad aver raccolto i morti dell’ultimo naufragio. Le navi ci passano davanti ma non si possono riprendere per questioni di sicurezza. L’operazione alla quale assistiamo praticamente in diretta (elaborata dagli stati maggiori e anticipata dalla agenzia AdnKronos) si dovrebbe chiamare “Mare sicuro”: quattro navi, tra cui unità dotate di attrezzature sanitarie ed elicotteri, aerei senza pilota Predator dell’Aeronautica. Circa un migliaio di militari italiani saranno impiegati per contrastare la minaccia jihadista nel Mediterraneo. Fermeranno anche gli sciacalli?
Dal primo novembre del 2014 Mare Nostrum non c’è più. È una missione archiviata. Copriva 400 miglia nautiche e aveva chiaramente come obiettivo la ricerca e il salvataggio in acque internazionali con un costo di 9,5 milioni di euro al mese (100 milioni complessivi a carico dell’Italia). Triton, la missione in vigore oggi, copre 30 miglia nautiche, l’obiettivo è il controllo della frontiera del Mediterraneo
centrale e non più il soccorso umanitario. Costa soltanto 2,9 milioni di euro al mese: “Ma noi continuiamo a scendere fin sopra le coste libiche: anche a venti, trenta, quaranta miglia dalle coste africane. Il soccorso è soccorso, vale la legge del mare e quando la chiamata arriva, non ti giri dall’altra parte”. La Dattilo è stata l’unica nave della Guardia Costiera inserita nel dispositivo di Mare Nostrum: 10 mila le persone salvate da 49 uomini in sei mesi.
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano l’anno scorso si è battuto molto perché Mare Nostrum fosse archiviata: missione troppo costosa ma soprattutto impopolare per la destra al governo. Ma il suo bilancio è di quasi 170 mila migranti tratti in salvo, 366 gli scafisti arrestati. La fine di questa missione europea avrebbe dovuto produrre una diminuzione degli sbarchi e invece i dati dicono il contrario: a gennaio e febbraio 2015 gli arrivi via mare superano quelli di gennaio e febbraio dello scorso anno. Con l'acuirsi delle crisi in nord Africa la gente continua a partire e l’estate, quando si muovono più barconi, è alle porte. C’è chi annuncia 500mila o un milione di persone pronte a salpare dai porti libici (Frontex). Chi invita alla cautela nel dare numeri approssimativi (le organizzazioni on governative). Lo sciacallo ha già recuperato un po’ di barconi in vista del business alle porte.



Quel gesto ribelle per le vie di Kabul delle donne stanche di violenza
Corriere della sera, 23-03-2015
Viviana Mazza
La ribellione delle donne di Kabul che dicono no alle violenze. Sono loro a portare la bara di Farkhunda, la studentessa ventisettenne picchiata a morte dalla folla che l’accusava di aver bruciato una copia del Corano. L’hanno accompagnata in processione fino alla sua tomba. Una protesta senza precedenti che ricorda i funerali di Özgecan Aslan, anche lei studentessa, stuprata, uccisa e data alle fiamme un mese fa in Turchia. Allora le donne turche (sfidando l’opposizione dell’imam locale) vollero trasportare la bara: «Nessun uomo deve più toccarla». Intanto a Kabul un religioso che aveva giustificato l’uccisione di Farkhunda è stato cacciato dalla cerimonia. E la rabbia cresce contro la polizia
afghana, che è rimasta a guardare mentre la ragazza, laureata in studi religiosi veniva presa a calci e a bastonate e poi ormai senza vita data alle fiamme.
Sono state le donne afghane — non gli uomini com’è tradizione — a portare la bara di Farkhunda fino alla sua tomba ieri a Kabul. Un’immagine potente, senza precedenti. «Era una figlia dell’Afghanistan, ieri è toccato a lei, domani toccherà a noi!», hanno gridato. E poi: «Allahu Akbar», Dio è grande — proprio come aveva fatto la folla che giovedì scorso ha picchiato a morte la ragazza ventisettenne, con l’accusa (peraltro falsa) di aver bruciato una copia del Corano. Una protesta che ricorda i funerali della studentessa Özgecan Aslan, stuprata, uccisa e data alle fiamme un mese fa in Turchia. Allora le donne turche (sfidando l’opposizione dell’imam locale) vollero trasportare la bara: «Nessun uomo deve più toccarla».
Adesso a Kabul un religioso che aveva giustificato l’uccisione di Farkhunda è stato cacciato dalla cerimonia. C’è rabbia anche contro la polizia afghana, che è rimasta a guardare mentre la ragazza, laureata in studi religiosi — dopo una disputa per strada con alcuni venditori di amuleti — veniva presa a calci e a bastonate, e poi ormai senza vita data alle fiamme. Il presidente Ashraf Ghani ha risposto con un’inchiesta (13 arresti) ma anche dicendo che le forze di sicurezza sono troppo impegnate dai talebani per mantenere l’ordine cittadino. Le attiviste replicano però che nel nuovo Afghanistan troppo poco è cambiato. Nonostante l’accesso all’istruzione e a diversi ambiti della vita pubblica, l’87% delle donne subisce violenze. Alcuni uomini le appoggiano: una catena di decine di afghani circondava ieri la loro processione.



Melilla, apre un ufficio per i richiedenti asilo ma di fatto solo per i siriani
L'apertura degli uffici potrebbe, da un lato, causare l'effetto-chiamata e, dall'altro, legittimare i respingimenti, soprattutto dei migranti sub-sahariani. Dice infatti il ministro dell'Interno spagnolo, Diaz: "Le persone che vivono al di fuori dei nostri centri di accoglienza non hanno diritto all'asilo; gli immigrati cosiddetti 'economici' non hanno diritto alla protezione internazionale"
la Repubblica, 22-03-2015
SARA CRETA
MELILLA (Enclave Spagnola in Marocco) -  La situazione a Melilla è molto complessa e la città autonoma ospita oggi oltre 2.000 migranti. Attualmente, la stragrande maggioranza sono siriani. Sono diffusi in tutta la città e nel centro di accoglienza e contribuiscono al cambiato del panorama sociale e urbano della città.
Diritto d'asilo a Ceuta e Melilla. Si aprono due strutture per la recezione delle domande d'asilo nelle città autonome spagnole in Marocco, le uniche porte d'ingresso in Europa via terra per chi arriva dall'Africa. La proposta è parte del nuovo piano di sicurezza nazionale spagnolo. "Una nuova arma per sconfiggere l'immigrazione irregolare in transito dall'Africa", annuncia Jorge Fernández Diaz, ministro dell'interno spagnolo, presente a Melilla all'inaugurazione della struttura, che è in funzione grazie all'UNHCR. Ceuta e Melilla diventano oggi l'unico punto terrestre dove poter chiedere asilo nella frontiera Europea.
Facilitare l'accesso all'asilo. L'inaugurazione del nuovo ufficio asilo nel valico di frontiera di Beni Enzar a Melilla avrà il compito di facilitare l'accesso alle procedure legali da parte dei cittadini in transito in Marocco in fuga da guerre e conflitti. La città spagnola di Melilla ha visto cambiare notevolmente il flusso migratorio in entrata. Dal mese di settembre 2014 ci sono state più di 1.350 richieste di protezione a Melilla - secondo i dati diffusi da UNHCR - che paragonate alle 41 del 2013 sono un aumento significativo. Le maggior parte delle domande sono di cittadini siriani, con una piccola percentuale di iracheni e palestinesi.
Il profilo dei migranti a Melilla. Negli ultimi mesi è aumentato notevolmente il numero dei siriani che arrivano in Spagna. Ingannati dalle bande di contrabbando in Marocco, entrano a Melilla dai valichi di frontiera con passaporti falsi marocchini o semplicemente filtrando attraverso la folla del "commercio atipico" nelle ore di punta. Ora la logica cambia. Da oggi i Siriani potranno presentarsi al valico di frontiera terrestre ed entrare nell'enclave mostrando il passaporto. Una volta a Melilla, diventano ospiti nel CETI - Centro di Accoglienza Temporaneo - e aspettano di essere trasferiti nella Penisola, seguendo lo stesso processo dei migranti subsahariani. La Spagna è solo un paese di transito nel tragitto migratorio verso la Germania, la Danimarca e la Norvegia
Il coinvolgimento diretto del vicino Marocco. Da sempre un buon alleato nella lotta all'immigrazione irregolare, il Marocco sta ultimando in questi giorni la quarta barriera per difendere l'enclave spagnola di Melilla. Un ulteriore divisione di lame e filo spinato per rendere più difficile, intralciare ed impedire il passaggio dei migranti che tentano di entrare a Melilla "saltando" il recinto spinato di protezione.  La società civile spagnola continua a definire illegali i respingimenti, con denunce, petizioni e campagne: la Spagna, per dare legittimità a questa pratica, ha approvato un emendamento alla legge sugli stranieri attraverso il nuovo pacchetto sulla sicurezza pubblica.
Una grave contraddizione. Ora, secondo la legislazione spagnola, attraverso il concetto giuridico di "rifiuto alla frontiera" è legale espellere un migrante, anche quando in territorio spagnolo. Un grave contraddizione poiché questo emendamento è stato considerato incostituzionale e in contrasto con i trattati internazionali firmati dalla Spagna. I rimpatri e le espulsioni, senza garanzie procedurali costituiscono una chiara violazione del diritto europeo e internazionale e mettono a serio rischio di abusi i richiedenti asilo, ha ribadito Human Rights Watch in una nota di Febbraio.
Scremare le domande d'asilo ai confini europei. In una paese come la Spagna dove non esiste una cultura all'asilo (è il secondo paese in Europa con minor numero di rifugiati), l'apertura degli uffici d'asilo nei valichi di frontiera di Ceuta e Melilla potrebbe da un lato causare un effetto a chiamata e dall'altro legittimare la legalità dei respingimenti, soprattutto dei migranti sub-sahariani. "Le persone che vivono al di fuori di tutto il perimetro di confine e nel CETI non sono richiedenti asilo e non hanno diritto all'asilo", ha ribadito il ministro degli interni durante l'inaugurazione dell'ufficio, lo stesso riconosce l'immigrazione irregolare motivata da circostanze economiche o sociali un "dramma", ma ribadisce: "non legittima questi cittadini ad avere protezione internazionale".

 

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