Date: 11:23 AM 7/2/00 +0200
From: dino frisullo
Subject: Sulla solitudine di un movimento:
lettera aperta a Gig
Sulla solitudine di un movimento
e sui possibili abbagli di chi lo osserva
Lettera aperta a Gigi Sullo sul movimento
degli immigrati "per il diritto di esistere"
(con richiesta di farla circolare nelle varie
reti, per aprire un dibattito)
Caro Gigi, scusaci se usiamo il tuo intervento
sul Manifesto di domenica 25 giugno, che in parte non condividiamo, come
occasione per alcune considerazioni, dall'interno e in corso d'opera,
sull'attuale movimento degli immigrati per il "diritto di
esistere". E ovviamente su di noi, autoctoni di pi o meno buona
volont.
Tu descrivi un corteo che a Roma ha
raccolto molte migliaia di immigrati e pochissimi italiani, e ne trai la
conclusione che finalmente gli immigrati si autorganizzano, e dunque si crea un
nuovo soggetto capace di autorappresentarsi, di sedere al tavolo delle
trattative, di mettere in crisi la tradizionale mediazione degli italiani
"amici"...
E' una lettura che ovviamente contiene elementi
di verit. Ma cos assolutizzata, rischia di farsi alibi rispetto alle nostre
responsabilit.
Noi, cos come gli immigrati che
organizzavano quel corteo, ne traiamo invece la domanda opposta, e angosciosa.
Dove sono finiti gli italiani amici e solidali? A pochi mesi da un movimento
consistente contro i lager creati dallo stato per "colpire uno ed educare
cento" alla clandestinit, possibile che la rivolta lunga pi d'un
mese di una parte consistente dei dannati alla clandestinit non muova non dico
tutta l'area vasta della solidariet, ma, con poche eccezioni come Brescia,
neppure la sua parte pi radicale e "antagonista"?
Cosa "ci" accaduto, perch un altro
corteo diretto in Vaticano, il 2 giugno, attraversi e sfidi una citt blindata,
sconfigga (come gi a Brescia, il giorno dello sgombero) il tentativo di una
parte dell'apparato statale di stroncarlo con la repressione, lasci feriti sul
campo - ed i compagni italiani si contino, dentro e attorno a quel corteo,
sulle dita di due mani?
Com' possibile che in una citt come Milano, a
pochi mesi dalla vicenda di via Corelli, un altro corteo sia cos sparuto da
essere "salvato" solo dall'arrivo della delegazione bresciana, e si
concluda senza neppure l'indicazione di un luogo unitario in cui avviare una
riaggregazione degli immigrati e dei loro bisogni inespressi? E che
anche il corteo di Torino parta segnato dalle tensioni fra i vari settori
di movimento (italiani), anzich dalla tensione unitaria per allargare la
prima breccia nel muro della gestione poliziesca della legalit e
dell'illegalit?
La conclusione amara che un movimento
generoso e importante come quello contro i centri di detenzione, conclusosi non
a caso senza un bilancio chiaro e condiviso dei suoi esiti pratici, ha lasciato
dietro di s una situazione disastrata nei rapporti a sinistra, e non
ha aperto (nella maggior parte delle situazioni) un percorso comune fra i
soggetti italiani e la generalit degli immigrati. Non ha creato quel
"sentire comune" e quei canali e luoghi di comunicazione che
consentano di cogliere, moltiplicare, sostenere l'estremo tentativo di un
settore dell'immigrazione, alle soglie dell'estate, di recuperare la legalit
negata.
Vogliamo dircele, queste cose, o continuare a
glissare?
E' ovvio che non vogliamo qui demolire quel
movimento, che ha sottratto alla rimozione un problema bruciante. Critichiamo
il fatto che quel movimento non ha saputo, nella maggior parte dei casi (non
cos a Venezia e Firenze, ad esempio), riconvertirsi e penetrare nelle
questure. Cio nei luoghi in cui le vittime della clandestinit imposta, futuri
ospiti dei centri di detenzione, lottavano disperatamente e individualmente.
Infine, le vittime sono insorte. Brescia e
Roma (ma anche, prima e con modalit diverse, Napoli e Torino) hanno visto in
queste settimane un prorompente protagonismo degli immigrati. Un'autentica
rivolta civile, in nome del permesso di soggiorno che vuol dire dignit,
contro il massacro di dignit umana compiuto in questi due anni nella gran
parte delle questure italiane.
Una rivolta disperata ai suoi esordi, fatta di
gente che si siede davanti all'estrema porta sbarrata e decide di non
continuare a bussare individualmente, di non aggrapparsi al venditore di speranze
di turno (di pelle chiara o scura non importa), ma di "manifestarsi"
collettivamente. La rivolta di chi non ha pi nulla da perdere e vede
sfumare il mondo che sperava di guadagnare. La rivolta del "popolo
della ricevuta", quel prezioso pezzo di carta che fa la differenza di
aspettative fra il "clandestino" normale e generalmente rassegnato e
il "clandestino" che ha scelto e sperato per due lunghi anni di
rompere la catena.
Quella rivolta, a Brescia e poi subito a Roma,
quasi "fuori tempo massimo" ha operato il miracolo. Ha saputo
impattare e scompaginare con intelligenza il mondo politico, ribaltare
l'astiosa incomprensione dei grandi media, smuovere una parte dei sindacati,
giocare sulle contraddizioni fra gli apparati statali, emarginare chi voleva
condurla nel vicolo cieco del settarismo...
Incredibilmente (almeno per noi, che l'abbiamo accompagnato per dovere
morale ma con il pessimismo dell'intelligenza), questo movimento nel giro di un
mese riuscito a vincere. Ha ribaltato una decisione gi presa e archiviata al
Viminale, gi materializzata nelle questure con l'affissione delle liste di
proscrizione e la grandine dei "rigetti" e delle
"intimazioni".
La porta chiusa s' riaperta. Per quella porta
non passeranno certo solo i primi ventimila "ri-sanati" promessi dal
governo. La breccia si allargher, perch troppo forte la pressione e troppo
deboli gli argomenti di chi le si oppone. E soprattutto, perch su una prima
vittoria (anche se parziale, settoriale e precaria, ma di rilievo nazionale) si
cresce, mentre contro i muri compatti ci si rompe la testa.
Questa rivolta, figlia della disperazione,
doveva avere dunque alle spalle qualcosa di assai solido, per non esaurirsi in
una fiammata autolesionista (come era ed pur sempre possibile, se la breccia
si dovesse richiudere). Ma che cosa?
Se, come ipotizza Gigi Sullo, si trattasse
del naturale emergere dell'"altra societ", ne sarebbero stati
protagoniste, come in Francia, le comunit di seconda o terza generazione: in
Italia i capoverdiani, gli eritrei, i somali... Invece no: sono assenti. Oppure
dovrebbe trattarsi delle comunit pi forti numericamente, e dunque capaci di
percepirsi come controsociet, come fanno i maghrebini in Francia o gli
asiatici e i giamaicani in Gran Bretagna... No: maghrebini e slavo-albanesi,
largamente maggioritari nell'immigrazione in Italia ed ancor pi
nell'immigrazione clandestina, sono quasi assenti da questo movimento, con
l'eccezione di Torino.
Il cuore della rivolta sono stati invece settori
numericamente pi ristretti, e d'immigrazione relativamente recente: gli
asiatici (del subcontinente indiano) e con loro, a Brescia, i senegalesi.
Perch?
La ragione secondo noi va cercata
nella storia e nella memoria collettiva di questo decennio. Infatti gli
indo-bangla-pakistani sono quelli che dalla sanatoria del '90, attraverso le
esperienze della Pantanella a Roma e di Porta Ticinese a Milano, e poi nella
pressione sul decreto Dini nel '96 , hanno maturato pi di altre comunit una
solidariet intercomunitaria, una consapevolezza collettiva dei diritti, una
capacit di conflitto sociale. La si potrebbe definire una cultura sindacale,
nel senso migliore del termine: un'idea vertenziale del rapporto con le
istituzioni.
A Roma come a Brescia, le figure di riferimento
della nuova immigrazione asiatica in movimento sono infatti tutte della
"generazione della Pantanella". Ed anche i senegalesi hanno
formato i loro dirigenti in una dinamica assai simile, cio lo sciopero della
fame di Firenze nel '92, e poi, fra la Toscana e Roma, l'organizzazione delle
grandi manifestazioni contro la clandestinit a met degli anni '90.
Da queste esperienze emerge
"naturalmente" una forma di lotta, che sarebbe lo sciopero se ci
fosse un lavoro da cui scioperare. Nella precariet del lavoro e
dell'insediamento sociale, un altro lo strumento di visibilit e
coesione: lo sciopero della fame, che ricorre ciclicamente non come disperato
autolesionismo, ma come affermazione di soggettivit, di irriducibile esistenza
della persona umana.
Al contrario, le manifestazioni
contro due assassinii razzisti che hanno visto in piazza a Roma migliaia
di nigeriani nell'agosto del '99 e duemila marocchini nello scorso aprile, non
avendo alle spalle la stessa memoria e capacit organizzativa (e, va detto,
avendo trovato solidariet assai scarsa nelle aree italiane di movimento o
della solidariet), sono rifluite subito. Fiammate di rabbia.
D'altra parte le vertenze locali per i diritti
sociali (sul diritto alla casa a Venezia, Firenze, Ostia, per non citarne che
alcune) sono esperienze importanti e feconde, ma non hanno e non potevano avere
lo stesso impatto nazionale di una vertenza sulla coppia legalit -
clandestinit. E' questo infatti il nodo, un nodo cos cruciale da poter essere
affrontato solo da comparti dell'immigrazione anche minoritari numericamente,
ma forti di una memoria di lotta.
Appunto: quelli che si sono mossi a Roma e
Brescia.
E non si sono mossi su linee di alterit e
contrapposizione culturale, come fa supporre l'intervento di Gigi Sullo. Al
contrario: un movimento "per l'integrazione". Usiamo
provocatoriamente questo termine. Non nel senso dell'assimilazione subalterna,
ma della rivendicazione di uno status di esistenza giuridica e quindi
dell'ingresso nella sfera dei diritti formalmente condivisi dagli italiani
e, in subordine, dagli stranieri "regolari".
E' un movimento di "diversi" per
l'uguaglianza, fatto di persone che sognano ci che sogna un qualsiasi
disoccupato in miseria: un lavoro regolare, un alloggio decente, un reddito
dignitoso, la possibilit di (ri)costruirsi una famiglia...
Staremmo per dire che un movimento proletario,
nel senso della coscienza di s come lavoratori nella fabbrica-mondo. Nei
cantieri di Monfalcone oltre met degli operai rinchiusi dieci ore al giorno in
stive mefitiche sono bangladeshi, e sono i pakistani a far marciare le
fabbriche bresciane di domenica e di notte. Per non parlare dei senegalesi
nelle concerie toscane... Per tutti, a differenza di altri settori
dell'immigrazione, l'ambulantato di strada una transizione in vista del
lavoro operaio.
Non a caso, le solidariet pi convinte questo
movimento le ha trovate, oltre ad alcune maglie dell'antica
Rete antirazzista e ad un settore circoscritto dei centri sociali,
nella sinistra sindacale, sia confederale sia extraconfederale.
Non poco, ma non abbastanza. E gli
immigrati in lotta in queste settimane, come tutti i lavoratori in lotta di
questo mondo, non si compiacciono affatto del proprio isolamento e dell'assenza
degli autoctoni (come avviene invece nelle rivolte del "black people"
in Gb e negli Usa). Al contrario: se ne dolgono e se ne indignano.
Coscienti che da soli non possono vincere, hanno
cercato e cercano solidariet e alleanze. Sono contenti, ovviamente, della
grande carica umana dei loro presdi, sono fieri dell'autorganizzazione del
loro sciopero della fame. Ma dopo aver visto i grandi cortei dello scorso
decennio ed anche di quest'inverno, si aspettavano di essere lasciati molto
meno soli.
E qui il discorso torna a noi.
Alla nostra capacit di comprendere e
condividere i loro percorsi, invece di limitarci ad osservarli e adattarli alle
nostre idee preconcette; di identificare senza giri di parole le vittorie e le
sconfitte, saper ascoltare lo scavo della vecchia talpa e dissodarle la terra
intorno, mettere in rete e far interagire le lotte e le esperienze.
Alla nostra responsabilit di italiani
antirazzisti: questa battaglia non avrebbe potuto vincersi gi in questa primavera,
se il movimento contro i Cpt fosse andato incontro alla quotidianit
kafkiana degli immigrati nelle questure, offrendo loro una rete di protezione e
sostegno e trasformandosi in movimento complessivo contro la clandestinit e la
sua gestione di polizia, invece di isterilirsi nelle diatribe sulle forme di
lotta e sulle primazie?
Cosa possiamo fare noi tutti qui ed ora perch
questo movimento vinca, tutti i 53mila dossier s'incarnino in persone con
diritti pieni, compresi -per dirne una- i Rom in gran parte esclusi per
pendenze giudiziarie? E sull'onda
di questa vittoria insperata, come possiamo aprire altre prospettive, e
quali? (la clandestinit riaccumulata, e poi l'asilo, la cittadinanza e i diritti
politici...) Cosa possiamo fare perch le prossime manifestazioni non vedano la
solitudine degli immigrati? I compagni di Brescia propongono un incontro
nazionale nella loro citt a fine agosto: non potrebbe essere quella la
sede in cui si superino molti contrasti e, a partire da questa vertenza,
si lanci una grande iniziativa di piazza a Roma in settembre, contro la
clandestinit e per i diritti di cittadinanza? E intanto: come attivare (o
coordinare, dato che in almeno una dozzina di citt gi esiste) una rete
nazionale di controllo sull'operato delle questure in questa fase delicatissima
di revisione delle pratiche di regolarizzazione? Come far giungere la voce
del "continente sommerso" anche a Marsiglia, dove il 29 luglio i
ministri dell'Interno europei si ritroveranno per sprangare la fortezza?
Infine: cosa se non questo dovrebbero chiedersi,
essere e contribuire a fare, Gigi, dei "cantieri sociali"?
Dino Frisullo e Alfonso Perrotta
Roma, 2 luglio 2000