Date: 3:57 AM 4/6/02 +0200
From: dino frisullo
Subject: romigrantsocialforum- PALESTINA:
MEMORIA DEL FUTURO...
LA MEMORIA DEL FUTURO E L'ANGOSCIA DEL
PRESENTE
(IN RISPOSTA AL "TERRORE CHE VOI NON
CAPITE" DI GAD LERNER, SUL MANIFESTO DEL 4/4)
Ero a Nablus nella prima notte della prima
Intifada, quindici anni fa. Fuori dal dedalo della citt vecchia, cuore del
cuore della Palestina, impazzavano i blindati. Non potevano oltrepassare, oggi
come allora, le barricate di rocce accatastate all'imbocco dei vicoli. Un
ragazzino indic lo spicchio di cielo fra le casupole. "Solo da lass ci
possono attaccare" disse, in un inglese stentato e fiero. Ora quel
ragazzino cresciuto e invece dei sassi stringe forse in mano un inutile
mitra, mentre da quel cielo lo bombardano gli F-16 e gli Apache.
Ricordi Vorrei che Gad Lerner avesse
conosciuto quella donna che nel campo di Kalandiya, accanto al cadavere del
figlio poco pi che bambino squarciato da una micidiale pallottola esplosiva
"dum-dum", ci disse piangendo e indicando gli altri figli: "Io
non odiavo gli israeliani, e nemmeno loro. Non voglio arrivare a odiarli. Non
voglio che i miei figli uccidano un giorno i loro figli. Aiutateci voi"
Voi europei, voi mondo, voi altrove.
Il fratello maggiore di quel bambino marciva
nella terribile prigione di Ansar, nel deserto del Negev. Pochi mesi dopo,
tornati a Kalandiya, la madre ci disse che era morto di stenti e torture. Mi
regal una pietra rotonda incisa dal figlio in chiss quante notti insonni:
l'immagine di un veliero, e dietro in arabo la scritta "la nave del
ritorno". L'ho conservata per anni come la mia cosa pi cara, prima di
affidarla a mia volta a un'esule kurda. Era, ancora, un segno di speranza.
Oggi forse uno dei figli di quella donna s'
fatto saltare in aria in una strada affollata di Gerusalemme o di Tel Aviv.
Oggi forse gli occhi di quella donna sprizzano odio. Quanto ha sofferto in
questi quindici lunghi anni? Quante volte i soldati hanno messo sottosopra la
sua baracca all'alba? Da quando sono nati, i suoi figli non hanno conosciuto
che guerra e discriminazione e, appena adolescenti, lavoro nero nelle terre dei
coloni e nelle citt degli alieni.
Anche a me, che iddio mi perdoni, quando
varcavo il confine impercettibile fra la Gerusalemme araba immersa nel silenzio
buio e teso del coprifuoco e le vetrine allegre e multicolori di Gerusalemme
ovest, anche a me veniva voglia di gridare e di spaccare tutto. Di far saltare
le vetrine, certo, non la gente innocente che vi passeggiava davanti. Ma io non
sono palestinese. Posso solo immaginare come possa crescerti dentro la
frustrazione, fino ad esplodere con il mondo intorno.
In quei giorni di fine anni '80 ci trovammo ad
inventare, nelle strade e nei campi di Palestina, una modalit di condivisione
che poi, dalla Bosnia al Chiapas al Kurdistan, divenuta patrimonio comune. Ci
trovammo a guidare e garantire, noi europei, le prime manifestazioni con
bandiere palestinesi per le strade di Gerusalemme e di Ramallah. Pi d'una
volta sentimmo fischiare i proiettili, ma non quello il ricordo peggiore. Non
dimenticher mai, invece, lo sputo in pieno viso e la mano alla gola di un Rambo
israeliano sceso dalla jeep di cui avevo appena annotato la targa, per
denunciare il pestaggio di una scolaresca che manifestava in Salahaddin Street.
Con un senso di repulsione fisica avvertii allora il suo potere, quel Potere
allo stato puro che ho ritrovato nei bastoni della polizia turca. In quel
momento lo odiai con tutte le mie forze. Ed io non sono un palestinese
Mi sono chiesto spesso, allora, come potevano
i palestinesi continuare a battersi solo con parole e pietre. Mi sono chiesto
con ammirazione, allora cos come in seguito in Kurdistan di fronte a una
negazione ancora pi radicale e ad un'occupazione ancora pi pervasiva, quale
forza morale potesse animare il tessuto dei Comitati popolari, la rete di
quotidiana resistenza civile dell'Intifada - che in kurdo si traduce Serhildan,
e in entrambi i casi significa semplicemente: su la testa!
Hanno continuato cos per molti anni, Lerner,
senza armi, infine con armi ridicole a fronte della potenza israeliana. Ancora
nei primi mesi della seconda Intifada, le vittime civili erano tutte da una
parte sola, ad eccezione dei coloni - che sono pi armati e militarizzati degli
stessi militari. Infine la disperazione, ben pi che un calcolo politico, ha
spinto decine, centinaia di giovani a scegliere la via dell'attentato suicida.
Una scelta atroce, certo, e da respingere. Come dice Brecht, anche l'odio
contro l'ingiustizia rende roca la voce e stravolge il viso.
Ma mentre quella disperazione e quell'odio
crescevano, noi che abbiamo fatto? Quanti di noi si sono cullati,
nell'intervallo fra le due esplosioni, nell'illusione che tutto fosse affidato
ormai, nel bene o nel male, alla diplomazia e alla geostrategia? Quanti hanno
smesso di chiedersi, se mai s'erano dati la pena di conoscerla, che vita
facesse quella donna di Kalandiya e milioni di donne come lei, sotto il tallone
dell'occupazione? Quanti hanno coltivato il feticcio consolatorio
dell'equidistanza fra oppressori e oppressi?
Ancora ricordi. Una sera d'estate, in casa di
giovani israeliani in procinto di partire per il servizio militare. Giovani
acculturati e di sinistra, una discussione serrata e appassionata. La
conclusione fu che non ci sarebbe stata pace senza il ritorno in tutto o in
parte dei profughi del '48 e il ritiro dei coloni, che al contrario crescevano
in numero e privilegi mentre i campi profughi nei paesi arabi sprofondavano
nella miseria pi nera. E che queste due condizioni non potevano realizzarsi se
non a prezzo di uno scontro durissimo dentro Israele, al limite della guerra
civile. Uno scontro che quei ragazzi non se la sentivano di aprire. Difatti c'
stato, sordo pi che aperto, ma per iniziativa della destra. E l'assassinio di
Begin ha segnato la sua vittoria, che oggi Sharon celebra nel sangue.
Posso capire il terrore in cui oggi vivono gli
israeliani, e capisco che produce nuovi mostri - il consenso crescente intorno
alla tragica illusione di soluzione finale di Sharon, cos come l'angoscia
esistenziale che conduce persino un analista intelligente come Lerner a
farneticare di una possibile, anzi imminente distruzione dello stato d'Israele
ad opera dei giovani suicidi-omicidi.
Al contrario: la solidariet con le stesse
vittime israeliane ci obbliga a tenere ferma e lucida l'analisi e la scelta di
campo. Questo terrorismo disperato non si combatte con strumenti militari,
perch non opera di una falange di cospiratori. Si combatte mettendo fine
all'occupazione e consentendo a un popolo compresso fino all'implosione di
respirare e progettare liberamente un futuro di convivenza, sulle macerie
dell'odio. Questo ripete Arafat, checch ne dica Bush o, 'si parva licet', De
Michelis. Questo dicono Ocalan ed i suoi in Kurdistan, Marcos ed i suoi in
America Latina.
Che le loro voci si spengano o no, che ai
popoli negati nell'epoca della globalizzazione resti o no una scelta diversa
dall'estremo sacrificio di s e degli altri, dipende anche da tutti noi.
Incluso Gad Lerner.
Dino Frisullo
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