ASGI

Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
Indietro
 
 
28.10.2010

Due sentenze della Corte di Strasburgo in materia di licenziamenti da parte di Chiese o organizzazioni la cui etica è fondata sulla religione, per violazione da parte del lavoratore degli obblighi di lealtà all'etica dell'organizzazione

 
La CEDU sottolinea l’esigenza che i giudici del lavoro bilancino, nelle circostanze di ogni specifico caso, gli interessi in gioco relativamente ai diritti fondamentali coinvolti, secondo un principio di proporzionalità.
 
CEDU, sentenza 23.09.2010, caso Obst c. Germania, n. 425/03 (in lingua francese) (428.17 KB)
CEDU, sentenza 23 settembre 2010, caso Schuth c. Germania (1620/03) (in lingua francese) (492.21 KB)
 

Sulla base di tale criterio valutativo, la Corte di Strasburgo ha considerato legittimo il licenziamento  da parte della Chiesa Mormone di Germania di un proprio dirigente, impiegato in qualità di direttore del dipartimento di relazioni pubbliche per l'Europa, dopo che questi aveva confidato ad un proprio superiore di avere avuto una relazione extraconiugale (caso Obst c. Germania, sentenza 23 settembre 2010, proc. 425/03).  La Corte di Strasburgo ha invece considerato illegittimo il licenziamento operato da una parrocchia della Chiesa cattolica di Germania nei confronti del proprio organista dopo che questi aveva divorziato e aveva avuto un figlio da un'altra relazione (caso Schuth c. Germania, sentenza 23 settembre 2010, proc. 1620/03).

Secondo la Corte di Strasburgo,  un datore di lavoro la cui etica è fondata sulla religione o su un credo filosofico può imporre ai propri dipendenti un obbligo di lealtà specifico al proprio sistema etico-filosofico, con conseguente licenziamento nel caso in cui essi manchino a tali obblighi. Questo in ragione del rispetto dei diritti fondamentali alla libertà di religione e di associazione di cui agli artt. 9 e 11 della Convenzione europea dei diritti fondamentali e del conseguente diritto di autonomia delle organizzazioni religiose.

Tuttavia, secondo la Corte di Strasburgo tale diritto di autonomia nel regolare i rapporti di lavoro non può avere un carattere assoluto ed illimitato, ma deve conciliarsi con i diritti fondamentali del lavoratori, incluso il diritto al rispetto della sua vita privata e familiare di cui all'art. 8 della CEDU, al fine che il lavoratore non debba sottostare ad obblighi di fedeltà e lealtà al sistema etico dell'organizzazione che risultino arbitrari, impossibili da soddisfare o sproporzionati.  La valutazione deve dunque avvenire secondo le circostanze di ciascun caso particolare, sulla base di un principio di proporzionalità e di bilanciamento tra gli interessi in gioco. Nel caso del dirigente della Chiesa Mormone, la Corte ha considerato legittimo il licenziamento avendo in considerazione l'alta funzione dirigenziale svolta dall'interessato entro l'organizzazione, per cui la sua mancanza al sistema etico fondamentale dell'organizzazione religiosa avrebbe messo in discussione la credibilità della Chiesa mormone.  Nel caso invece dell'organista della parrocchia cattolica, la funzione svolta dal lavoratore non era così intrinsecamente collegata alla trasmissione dei valori etico-morali dell'organizzazione religiosa affinchè quest'ultima potesse legittimamente  imporgli di aderire al codice canonico della Chiesa cattolica che lo avrebbe obbligato, dopo il divorzio, a vivere nell'astinenza sessuale per il resto della propria vita, con ciò incidendo in misura sproporzionata sul suo diritto al rispetto della propria vita privata.

Le due sentenze della Corte di Strasburgo sono dunque estremamente importanti per definire un quadro interpretativo coerente all'eccezione al divieto di discriminazioni per motivi religiosi o di convinzioni personali  in materia di occupazione e condizioni di lavoro, previsto a favore delle organizzazioni religiose  o fondate su un sistema etico-filosofico (c.d. "organizzazioni di tendenza") dall'art. 4 della direttiva n. 2000/78/CE.

La direttiva europea "occupazione" contiene, infatti,  una clausola di esenzione dal divieto di discriminazioni per motivi religiosi a favore  delle chiese o di altre organizzazioni la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali (Art. 4.2 Dir. 2000/78: "Gli Stati membri possono mantenere nella legislazione nazionale in vigore alla data d'adozione della presente direttiva o prevedere in una futura legislazione che riprenda prassi nazionali vigenti alla data d'adozione della presente direttiva, disposizioni virtù delle quali, nel caso di attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali non costituisca discriminazione laddove, per la natura di tali attività, o per il contesto in cui vengono espletate, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell'attività lavorativa, tenuto conto dell'etica dell'organizzazione. Tale differenza di trattamento si applica tenuto conto delle disposizioni e dei principi costituzionali degli Stati membri, nonché dei principi generali del diritto comunitario, e non può giustificare una discriminazione basata su altri motivi [...]" (sottolineatura nostra)).

Nella normativa di recepimento (1), tale clausola derogatoria è stata ripresa, ma senza contenerne  la portata entro i limiti della legislazione nazionale e delle prassi vigenti al momento della data di adozione, così come invece richiesto dalla direttiva.

Sorge di conseguenza un problema interpretativo, in ragione del fatto che il potere discrezionale apparentemente concesso dal testo piuttosto ambiguo ed imprecisato della direttiva appare più ampio di quello derivante dall'interpretazione delle norme legislative e costituzionali affermatasi in Italia fino al momento dell'adozione della direttiva per effetto di sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. Queste ultime, infatti, hanno sancito che il licenziamento "ideologico" può essere legittimamente compiuto  dalle "organizzazioni di tendenza" solo entro i limiti in cui l'adesione ideologica del lavoratore è requisito essenziale per la protezione della "tendenza ideologica", la quale va tuttavia riferita  non all'ente in sé, ma alle  attività e scopi istituzionali di quest'ultimo. In altre parole, e a titolo d'esempio, un lavoratore che si converte ad altra religione diversa dal cattolicesimo, non potrà essere licenziato dalla casa di riposo per anziani gestita da un istituto religioso cattolico, perché scopo precipuo del datore di lavoro è la cura degli anziani non la promozione dei valori del cattolicesimo. Potrà invece essere legittimamente licenziato qualora il lavoratore sia un dipendente di un istituto educativo cattolico, ma solo se le sue mansioni effettive hanno un legame con la protezione e  promozione della tendenza ideologica dell'istituto. Di conseguenza, un lavoratore che svolge nella scuola cattolica le mansioni di addetto alle pulizie  non potrà subire un licenziamento "ideologico", perché l'adesione ideologica del lavoratore è irrilevante per i fini istituzionali dell'ente, mentre il licenziamento ideologico sarà legittimo nei confronti dell'educatore, ma esclusivamente in relazione a  quelle materie ed insegnamenti che caratterizzano la "tendenza" dell'ente o che non sono indifferenti ad essa (ad. es. sulla illegalità del licenziamento ideologico di un insegnante di educazione fisica per il mancato rispetto dei codici morali cattolici con riferimento al matrimonio religioso, cfr. Corte di Cassazione  sent. n. 5832/1994).

E' del tutto evidente che se interpretato letteralmente, il testo della normativa di recepimento attribuirebbe ai datori di lavoro che costituiscono le c.d. "organizzazioni di tendenza" un potere  discrezionale più ampio di quello posseduto fino al momento dell'adozione della direttiva, con ciò realizzando una possibile infrazione delle norme comunitarie e, avendo in considerazione anche le citate sentenze della CEDU, anche della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo.

A cura di Walter Citti, servizio di Supporto giuridico contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose, progetto ASGI con il sostegno della Fondazione italiana  a  finalità umanitarie Charlemagne ONLUS.

(1) Art. 3.5 D.lgs. n. 216/2003:  "Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell'ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attivita' professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività".

 
» Torna alla lista